Sui fatti del Venezuela.
Quello che sta succedendo in Venezuela da alcuni mesi a questa parte (in pratica dalla morte di Chavez e con l’avvento al potere del suo successore Maduro) pone problemi che non toccano solo (e sarebbe già di per sé importante) quel grande paese sudamericano, ma investono anche tutti gli altri paesi del mondo, investe anzi la coscienza di ognuno di noi.
Non conosco bene la situazione che lì si è venuta a determinare soprattutto a partire dalla morte di Chavez. Anzi non conosco bene neanche le caratteristiche che ha avuto la cosiddetta rivoluzione chaveziana. Per cui qualcuno potrebbe accusarmi di voler parlare di cose di cui non so niente o so molto poco. Accusa che avrebbe una sua ragion d’essere, se io volessi avventurarmi a parlare dei fatti venezuelani nello specifico e nei particolari.
Io, però, non ho questa intenzione. Quindi credo di poter sfuggire a questa critica. Le questioni di cui vorrei parlare sono quelle che invece emergono con evidenza da questa vicenda, anche prendendo per buoni i resoconti che ce ne danno i giornali, perfino quelli dei giornali che tendono a darci una ricostruzione parziale (o addirittura di partito preso) degli avvenimenti in corso.
Anzi, più che delle questioni (al plurale), io vorrei ragionare della “questione”, che a me sembra quella centrale e che mi pare riassuma e contenga anche le altre: la questione di come si possano realizzare forme di “democrazia sostanziale” salvaguardando i meccanismi e le istituzioni della cosiddetta “democrazia formale”.
Sappiamo bene che in altre epoche e in altri paesi sono state fatte scelte diverse da quelle compiute da Chavez in Venezuela. In altre parole e in estrema sintesi in altri paesi e in altre epoche storiche la democrazia formale è stata (in pratica e nella realtà) sacrificata in nome della (vera o presunta) democrazia sostanziale.
Anche se (lì e allora) l’ideologia imponeva di sostenere che le due in realtà coincidevano e che la vera e unica democrazia era quella sostanziale, per cui non si sacrificava un bel niente a distruggere la democrazia formale, in quanto questa era (è) la democrazia borghese, che faceva (fa) solo ed esclusivamente gli interessi della borghesia a danno dei proletari, delle classi subalterne. E, quindi, non è una vera democrazia.
Io non condivido per niente questa ideologia. Ritengo che la democrazia formale sia comunque un bene, anche se figlia della tradizione e della cultura borghese e che, quindi, non vada sacrificata mai, neanche in nome di una (presunta) democrazia sostanziale. Vada, certo, integrata, arricchita con elementi di democrazia sostanziale, ma non (come alcuni semplicisticamente e superficialmente pensano) sostituita con questa.
Per cui ritengo innanzitutto che in Venezuela sia stata fatta a suo tempo una scelta corretta da parte di Chavez, che ha voluto conservare il pluralismo e le istituzioni tipiche della democrazia formale. E che, perciò e di conseguenza, le vicende di questi giorni in quel paese investono la coscienza di tutti coloro che non si accontentano di una democrazia solo formale, ma vogliono, auspicano e si battono perché le istituzioni della democrazia formale si riempiano anche di contenuti economici, sociali, culturali di democrazia reale, fondati sui principi del massimo di libertà, eguaglianza e fraternità.
Alla luce di queste considerazioni, quale giudizio (limitato, parziale e non certo sommario) dare di quanto sta avvenendo in questi giorni in Venezuela?
A me sembra di poter dire che Enrico Berlinguer, quando affermò (nell’oramai lontano 1973 e all’indomani del golpe in Cile, in una situazione per certi aspetti simile a quella venezuelana di oggi) che non basta ottenere il 51% dei voti per poter portare avanti processi di democrazia sostanziale nel quadro di una democrazia formale, che non si voleva mettere in discussione, avesse profondamente ragione.
Questo non vuol dire che fosse condivisibile, dal mio punto di vista, il suo progetto di “compromesso storico”, cioè la sua proposta di soluzione del problema, che era fondata sulla alleanza organica (e perciò “storica” tra il PCI e la DC).
Ma la sua diagnosi del problema, quella sì, ed è questo che qui mi preme affermare (senza voler minimamente approfondire l’analisi storica di quella fase) era corretta, si fondava cioè su una corretta analisi dei rapporti di forza che allora intercorrevano tra le classi in Italia (e non solo in Italia).
Che cosa si deduce da queste considerazioni?
Si deduce che, quando un paese è socialmente spaccato più o meno a metà, come è attualmente il caso del Venezuela e come era il caso dell’Italia agli inizi degli anni ’70, chi vuole portare avanti processi di democrazia sostanziale non può pensare di farlo con metodi impositivi e autoritari, schierando la polizia e l’esercito per domare l’opposizione e neanche forzando i meccanismi costituzionali e istituzionali.
Lo può fare solo portando avanti una battaglia (necessariamente di lunga durata) sul piano sociale e culturale, per convincere della bontà delle sue proposte chi inizialmente è loro ostile, quand’anche lo fosse in maniera pregiudiziale.
Lo può fare, quindi, solo attraverso forme graduali di cambiamento, cioè nello stile più classico del riformismo, che non vuol dire rinunciare agli obiettivi strategici (che possono continuare a restare rivoluzionari, cioè di cambiamento radicale degli equilibri sociali esistenti), ma vuol dire tener conto dei rapporti di forza e del necessario evolvere delle condizioni socio-culturali perché certe riforme ottengano un largo consenso e quindi si radichino nella coscienza della gran parte del popolo e non solo di una parte di esso (fosse anche la sua stretta maggioranza).
Una cosa, quindi, mi sembra di poter dire per concludere questo ragionamento: Maduro si illude, se crede di poter imporre con la forza riforme costituzionali e istituzionali avendo metà (se non di più) del paese contro.
Potrà farlo, ma a questo punto dovrà imboccare (e con decisione) la via tradizionale, cioè quella classica del pensiero marxista-leninista, della “dittatura del proletariato”.
Una via diversa, cioè, da quella che aveva caratterizzato (pur con tutte le sue contraddizioni) l’esperienza politica del Venezuela ai tempi di Chavez e anche fino ad ora sotto il governo di Maduro.
Non solo, quindi, contraddicendo una caratteristica fondamentale che ha avuto finora questa esperienza, ma mettendosi su una strada che penso avrà un respiro corto e poche prospettive realistiche di successo davanti a sé.
Giovanni Lamagna