Tag
"verità effettuale", Aristotele, astuzia, autonomia della politica, bene, bene comune, bene e male, Chiesa, consenso, Croce, etica, etica dei principi, etica della responsabilità, forza, Hobbes, Il Principe, leone, Luigi Firpo, Medioevo, mezzi e fini, Nicolò Machiavelli, Platone, politica, potere, ragione, religione, Socrate, sofisti, Stato, valori, virtù, volpe, Weber
3.8. Etica e politica. Autonomia della politica?
Una visione della politica come quella che ho cercato di delineare finora comporta la (ri)messa in discussione di un principio che è divenuto egemone nella modernità: quello dell’autonomia della politica rispetto non solo alla religione, ma alla stessa coscienza morale.
Come sappiamo bene tutti, questa autonomia è stata affermata per la prima volta da Nicolò Machiavelli tra la fine del ‘400 e gli inizi del ‘500. In seguito lo faranno molti altri. Ne cito solo alcuni: Hobbes, Weber, Croce.
Machiavelli non solo prendeva atto dello scarto esistente tra essere e dover essere. tra ciò che dovrebbe e vorrebbe essere e ciò che realmente è nei fatti (quella che lui chiamava “verità effettuale”), ma faceva di tale scissione un principio, in base al quale valutare i fatti politici.
Per Machiavelli chi si immagina “repubbliche e principati che non si sono mai visti” prepara la sua rovina. Per cui il Principe deve essere disposto ad applicare metodi anche estremamente crudeli, addirittura disumani.
Ovviamente la visione dell’uomo da cui parte Machiavelli è decisamente pessimistica. L’uomo per lui non è né buono né cattivo, ma ha una decisa propensione a essere cattivo.
Sulla base di questa concezione dell’uomo il Principe deve innanzitutto farsi temere. Certo, sarebbe auspicabile che egli fosse allo stesso tempo temuto ed amato! Ma, dovendo scegliere, il principe deve preferire di essere temuto piuttosto che amato.
Ne emerge un nuovo concetto di virtù, che non ha niente a che fare con la morale tradizionale, meno che mai con quella cristiana.
Non ha a che fare manco con la morale di Socrate o di Platone o di Aristotele, per i quali essa è essenzialmente un’attività della ragione che si pone al servizio del bene.
La virtù, secondo Machiavelli, è piuttosto la morale dei sofisti. Luigi Firpo l’ha descritta molto bene: “Virtù è vigore e salute, astuzia ed energia, capacità di prevedere, di pianificare, di costringere: è soprattutto volontà che fa argine alla piena straripante degli eventi, che dà regola – sempre parziale, ahimè, e caduca – al caos, che costruisce con invitta tenacia l’ordine entro un mondo che frana e si disgrega perpetuamente. Il volgo degli uomini è vile, malfido, avido, dissennato; non persevera nei propositi; non sa resistere, impegnarsi, patire per raggiungere una meta; appena il pungolo o la sferza cadono di mano al dominatore, subito le fiacche turbe gettano i pesi, scantonano, tradiscono. Anche per la grande tradizione medioevale della politica cristiana l’uomo decaduto e peccaminoso era stato affidato in terra alla potestà civile, portatrice della spada, perché i prevaricatori fossero tenuti a freno da una forza materiale inesorabile: ma quella forza si giustificava in vista della salvezza dei buoni e grazie alla divina investitura dei sovrani, fatti strumento di una severità moralizzatrice. Qui invece è la massa intera degli uomini che affonda nell’ottusa malvagità e la virtù stessa – che dà e giustifica il potere – non ha nulla di sacro, perché costringe ed edifica, ma non educa e non redime”.
Le virtù fondamentali del Principe sono quindi l’astuzia e la forza, anzi la violenza. Il Principe deve agire da volpe e da leone.
Queste virtù tuttavia, anche per Machiavelli, sono tali se finalizzate alla costruzione e alla salvezza dello Stato, che è il vero fine dell’azione politica del Principe, per il cui raggiungimento tutti i mezzi sono leciti.
La costruzione e la salvezza dello Stato sono fini superiori, che si sottraggono alle leggi comuni della morale. In questo senso con Machiavelli nasce il concetto di “autonomia della politica”.
Che, a mio avviso, si giustificava nel ‘500, quando la morale era essenzialmente la morale religiosa, anzi la morale della Chiesa. Rivendicare quindi l’autonomia del politico dalla morale significava in quei tempi rivendicare l’autonomia della politica dalla Chiesa.
Si giustifica di meno in assoluto e meno che mai oggi che l’autonomia dello Stato dalla Chiesa è un principio che si è oramai ampiamente affermato e non viene più seriamente messo in discussione.
Infatti, una cosa è l’autonomia dalla religione, da qualsiasi religione, altra cosa è l’autonomia dello Stato dalla morale o, meglio, dalla coscienza morale. Ovverossia la rivendicazione dell’autonomia della politica dall’osservanza di qualsiasi norma morale.
Sulla base di due principi teorici tutti da dimostrare: 1) l’uomo è un animale tendenzialmente portato al male, che va quindi domato e addomesticato; 2) il fine della politica è essenzialmente il consenso.
Il primo principio, come abbiamo già visto in precedenza, è quantomeno parziale. E, quindi, del tutto opinabile.
Certo, se si dà per scontato che l’uomo è essenzialmente cattivo, egli sarà destinato per sempre a rimanere tale, anzi a peggiorare e non a migliorare. In questo caso avremo la classica profezia che si autoavvera.
Io preferisco, invece, pensare che nell’uomo ci siano una tendenza al bene e una al male, che nel cuore dell’uomo si svolga un duro conflitto tra il bene e il male e che l’esito di questo conflitto non sia né scontato né mai definito una volta e per tutte.
Penso, pertanto, che uno dei compiti della politica debba essere proprio quello di incoraggiare il bene e scoraggiare il male, piuttosto che rassegnarsi al male e, a questo punto, rinunciare al bene. Come sembra pensarla, invece, chi “predica” l’autonomia della politica.
Ovviamente qui, quando parlo di “bene”, non mi riferisco a valori ipostatizzati una volta per tutte. E meno che mai a valori di cui si faccia depositaria e garante un’autorità indiscussa, come una volta era considerata la Chiesa.
Mi riferisco a valori che siano il risultato di una ricerca storica sempre in discussione e che affondino nella coscienza individuale, di cui quella collettiva finisce per essere una sintesi mai definitiva, sempre in movimento e provvisoria.
E comunque la politica, a mio avviso, ha bisogno di guardare e tendere a dei valori, a quello che non avrei esitazione, anche oggi, a definire come il bene comune. Perlomeno come aspirazione.
La politica, insomma, non può essere il puro perseguimento del potere, in nome di un’autonomia dai valori tutta da dimostrare.
In secondo luogo non penso affatto che il fine principale della politica debba essere la conquista del consenso. Il fine principale della politica deve essere, invece, la costruzione del bene comune. Nel senso che dicevo prima.
Il consenso è indubbiamente necessario per realizzare il bene comune. Ma è un mezzo, non è il fine della politica.
Sulla base di questi due ragionamenti ritengo che vada rimesso in discussione il principio tutto “moderno” dell’autonomia della politica.
Non certo per ritornare al Medioevo, quando la politica era ancella della religione o, meglio, dei poteri della Chiesa.
Ma per recuperare una visione olistica dell’uomo (questa sì davvero moderna!), nella quale le diverse dimensioni dell’umano si compenetrano, si integrano e armonizzano, non possono certo essere estranee l’una alle altre.
Non sono concepibili a mio avviso una morale, confinata nello spazio del privato, e una politica, egemone nel pubblico. Entrambe autonome l’una dall’altra. Come se l’uomo fosse scisso, tra una dimensione tutta interiore e privata e una tutta esteriore e pubblica.
L’uomo è un unicum, un continuum di privato e pubblico: è una realtà integrata e armonica, non scindibile. La politica quindi non può essere autonoma, nel senso di separata, dalla coscienza e dal perseguimento dei principi. Così come i principi non possono essere vissuti in astratto, in una dimensione del tutto separata dalla politica.
Volendo parafrasare Weber, direi che l’etica della responsabilità non può prescindere dall’etica dei principi, così come l’etica dei principi non può prescindere dall’etica della responsabilità.
Giovanni Lamagna
(continua, 15)