Diario politico (358) La Meloni e le tasse.

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Con le dichiarazioni fatte ieri (“nessuno riuscirà mai a farmi dire che le tasse sono bellissime”) il nostro Presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha gettato definitivamente (ammesso che ce ne fosse ancora bisogno) la maschera.

Quella che dietro un’osservanza e un rispetto del tutto e solo formali della Costituzione del 1948 nasconde un sostanziale disprezzo e un ripudio di fatto del suo spirito solidaristico e sociale.

Espresso magnificamente e a chiarissime lettere dall’art. 53: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività.”

Che dovrebbe spingere noi cittadini a considerare le tasse non solo un dovere morale, ma anche una “cosa bella” (come ebbe a dire qualche anno fa Tommaso Padoa-Schioppa), nell’ottica della solidarietà verso i propri concittadini, considerati parte della comunità nazionale.

La Meloni si riempie la bocca continuamente con le parole “patria” e “nazione”, ma poi evidentemente ritiene che all’interno della stessa patria e nazione ogni “patriota” sia parte a sé, indifferente al destino degli altri patrioti.

Per “patria” e “nazione” evidentemente intende una compagine sostanzialmente disgregata che si compatterebbe solo di fronte ad un pericolo comune, nel confronto/scontro con altre nazioni, vissute come nemiche; nell’ottica, insomma, del più bieco e becero nazionalismo, di – a noi italiani – ben nota memoria.

Con le sue affermazioni di ieri (del tutto in contrasto – come abbiamo visto – con la lettera e lo spirito della nostra Costituzione) la Meloni ha inteso ancora una volta mandare un chiaro e “benevole” messaggio agli evasori fiscali; cioè alla parte peggiore (e, purtroppo, non minoritaria!) della nostra società.

Diventa sempre più chiaro in quale bacino elettorale pesca sfacciatamente e volgarmente il suo consenso questa Destra oggi al governo.

Il guaio è che troppo spesso le forze che oggi le si oppongono invece di mandare un messaggio nettamente alternativo a quello della Destra, provano a contenderle il consenso inseguendola sul suo stesso terreno.

Quello di “abbasseremo le tasse” è, infatti, uno slogan che oramai, da qualche anno, accomuna (quasi) tutte le forze politiche.

© Giovanni Lamagna

Diario politico (357) Sull’astensionismo elettorale.

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Due giorni fa, in una trasmissione televisiva, Italo Bocchino, “autorevole” esponente di Fratelli d’Italia, il partito del premier Giorgia Meloni, ha avuto il coraggio di affermare che le democrazie nelle quali votano in pochi, nelle quali è dunque alto il fenomeno dell’astensionismo, sarebbero democrazie mature.

Perché, secondo Bocchino, i cittadini si sentirebbero così rassicurati dalle istituzioni e dai partiti che incanalano il consenso popolare da non avvertire l’urgenza, l’impellenza di recarsi alle urne per esprimere il loro voto, ovverossia il loro orientamento politico; in pratica si sentirebbero rassicurati dal voto… degli altri.

Ed ha fatto, a tal proposito, l’esempio degli Stati Uniti e della Gran Bretagna, dove da decenni ormai vota sì e no il 50% dei cittadini aventi diritto.

Ovviamente non era la prima volta che sentivo propagandare una tale teoria, che è vecchia di almeno alcuni decenni, ma che non ha nessun fondamento scientifico, non è avallata da nessuna ricerca teorica di una qualche serietà e affidabilità, sia dal punto di vista astrattamente filosofico che da quello concretamente statistico-sociologico.

È, piuttosto, la teoria di coloro che vogliono e intendono in questo modo difendere e tutelare il sistema dato a prescindere, pur se, con tutta evidenza, si fonda su ineguaglianze (economiche, sociali, culturali e, quindi, anche politiche) macroscopiche, un sistema nel quale esistono ristrette elite che di fatto governano e una grande massa di popolo che conta niente o ben poco.

Insomma, un sistema che di democratico ha quasi nulla, se non la forma e l’apparenza: periodicamente si dà la possibilità al popolo di recarsi alle urne.

Il fatto che quasi il 50% di questo popolo non vi si rechi più (o non vi si sia mai recato) è la dimostrazione (per me evidente) che il popolo non crede (o, meglio, non crede più) a questa ipocrisia; altro che sentirsi rassicurato dalle istituzioni e dai partiti!

Il popolo – almeno in una sua parte consistente – non crede più che queste istituzioni siano autenticamente democratiche; non crede più in nessun partito; pensa che tutti i partiti (chi più e chi meno) rappresentino solo ristrette elite e che mandino loro rappresentanti nelle istituzioni solo per fare gli interessi o dell’una o dell’altra elite; non certo del popolo nella sua grande maggioranza.

Questo significa – a mio avviso – il largo astensionismo elettorale che oramai caratterizza gran parte delle cosiddette “democrazie” occidentali; altro che la loro maturità, come ha sostenuto (secondo me neanche in buona fede) Italo Bocchino due sere fa!

Ed è un dato che dovrebbe fortemente preoccupare coloro che tengono sinceramente a cuore le sorti della democrazia.

Non mi meraviglia che non preoccupi affatto, anzi tutto sommato allieti, chi della democrazia, della vera democrazia, si importa ben poco e la utilizza soltanto per legittimare finalità, scopi e obiettivi che con la vera democrazia hanno ben poco a che spartire.

Ad esempio (mi basta qui fare solo questo esempio), per tutelare gli interessi dei grossi fabbricanti di armi, i quali, con il rinascere recente dell’ideologia della guerra, oggi gongolano e stanno facendo affari d’oro, come (forse) non li facevano dalla fine della seconda guerra mondiale.

© Giovanni Lamagna

Giudizio su Giorgio Napolitano dopo la sua morte.

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Non ho (quasi) mai condiviso le scelte politiche di Giorgio Napolitano e non provavo neanche simpatia umana per lui come persona.

Quindi non mi mancherà.

Credo che persone come lui abbiano fatto molto danno alla sinistra, perché hanno ingenerato al suo interno molti equivoci e perciò resa confusa la sua immagine non solo, ma soprattutto la sua cultura politica.

Era, in fondo, strutturalmente estraneo alla sinistra: un alto borghese, che ha cercato (ed è questa, a mio avviso, la sua colpa più grave) di sancire, ratificare, la subalternità della classe lavoratrice agli interessi della borghesia.

Non escludo (perché non ho prove contrarie e non mi piace lanciare, quindi, accuse gratuite) che lo abbia fatto in buona fede.

Ma lo ha fatto; e questo è un dato oggettivo, di realtà, non una insinuazione.

Ciò me lo ha reso sempre distantissimo sia politicamente che umanamente.

Giovanni Lamagna

Diario politico (356) Legittima difesa e nonviolenza.

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Ho la ferma intuizione (non arrivo alla presunzione di definirla “convinzione”) che la violenza contraccambiata sia solo uno dei modi coi quali si possa (qualcuno invece presuntuosamente, arriva a dire: si debba) reagire alla violenza ricevuta.

Certo, la risposta violenta è sicuramente quella più istintiva, quella che viene più immediata e facile; e (forse per questo) quella che finora ha prevalso nella storia delle relazioni umane, soprattutto tra le Comunità e gli Stati.

Il concetto di “difesa legittima” (per quanto limitato dal carattere della giusta proporzionalità rispetto all’offesa ricevuta) è parte integrante del diritto di tutti gli Stati, anche di quelli più democratici e tendenzialmente pacifisti.

Ed è stato assunto perfino dalla morale cristiana, in modo particolare da quella cattolica; anche se negli ultimi decenni molti pronunciamenti delle gerarchie ecclesiastiche hanno cominciato a metterlo seriamente in discussione.

Eppure è mia profonda sensazione che alla reazione violenta in risposta all’azione violenta subita possano esserci delle alternative, concretamente praticabili; e che, prima o poi bisognerà cominciare ad attuarle, se l’Umanità vorrà evitare di avviarsi verso la catastrofe atomica mondiale e, quindi, verso il suicidio.

Ritengo, infatti, che sia istintivo e, quindi, naturale reagire difendendosi con la violenza dalla violenza, ma che sia altrettanto naturale e forse persino istintivo (almeno per alcuni) provare ripugnanza per la violenza in sé, anche per quella eventuale difensiva e non solo (com’è ovvio) per quella eventuale subita.

Chi prova ripugnanza istintiva, direi addirittura fisica prima che morale, verso ogni forma di violenza, avverte intimamente e profondamente che dovrà reagire con metodi non violenti alla violenza di cui sarà oggetto, che “all’occhio per occhio, al dente per dente” dovrà sostituire la scelta pratica del “porgere l’altra guancia”.

Anche a costo di risultare inizialmente perdente e di dare scandalo ed apparire codardo agli occhi di chi non vede e non concepisce alternative alla “legittima difesa”.

Ma tant’è: qui si confrontano due visioni del mondo, che entrambe hanno, a mio modesto parere, dei fondamenti di razionalità.

Anche se a chi ne sostiene una risulta difficile riconoscere i fondamenti di razionalità (e, quindi, di legittimità) dell’altra.

La mia previsione è che (purtroppo!) sarà la storia e solo la storia a stabilire (quindi solo a posteriori) quale di essa era la più saggia e lungimirante.

Spero solo che non sarà una storia tragica, anzi apocalittica; come purtroppo temo sarà, se l’Umanità non si deciderà a fare una scelta radicale di nonviolenza.

© Giovanni Lamagna

Appunti e riflessioni a margine della lettura del libro “Una civiltà possibile La lezione dimenticata di Federico Caffè” di Thomas Fazi (Meltemi 2022) (parte seconda)

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15 aprile 2023

Federico Caffè non aveva molto in simpatia il sistema delle partecipazioni statali, perché secondo lui “non favoriva la divisione netta, che egli auspicava, tra ciò che si ritiene debba essere pubblico (e che dovrebbe operare in base a logiche diverse da quelle di mercato) e ciò che invece si ritiene debba essere privato.” (pag. 81)

Ovviamente non vi era contrario; ne riconosceva i vantaggi che aveva apportato all’economia del Paese; era però convinto che questi vantaggi sarebbero potuti essere ancora maggiori, se il sistema avesse assunto caratteri ancora più radicali, come egli auspicava. (pag.81)

Caffè critica altresì la retorica autocompiaciuta sul cosiddetto “miracolo economico italiano” degli anni 50 e 60.

Perché basato in larga parte sulla compressione salariale, sulla rigida disciplina nelle fabbriche, sulla debolezza dei sindacati e sulla emigrazione sia dal sud verso il nord che dall’Italia verso l’estero. E soprattutto sulla esportazione dei nostri prodotti all’estero, che era la causa principale dei bassi salari. (pag. 81-82)

D’altra parte lo stesso ingresso dell’Italia nella CEE fu fortemente voluto e sostenuto da Confindustria italiana, in quanto tale entrata avrebbe imposto regole di natura fortemente mercantilista alla nostra economia, ostili quindi ad ogni ipotesi di ispirazione keynesiana. (pag. 83)

Caffè ne era pienamente consapevole, tanto è vero che condivise il giudizio di altri insigni economisti, quali Gunnar Myrdal, secondo i quali il mercato comune avrebbe significato un ritorno al “lasciar fare”, un consolidamento delle posizioni imprenditoriali, il predominio economico della Germania, scarso sostegno all’occupazione. (pag. 84)

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17 aprile 2023

La scelta (economica) della borghesia italiana del dopoguerra a favore di un modello di sviluppo basato su bassi salari faceva pendant (politico) con la conventio ad excludendum da parte dei partiti centristi nei confronti dei partiti di sinistra, in particolare del PCI. (pag. 84)

In questa logica un ruolo centrale lo svolse il governatore della Banca d’Italia nel periodo 1960-1975, Guido Carli, che, nel conflitto di classe tra operai e capitalisti, ammetteva candidamente di stare dalla parte di questi ultimi. (pag. 84-85)

Alle scelte già fortemente moderate delle classi dirigenti italiane si sovrapponevano e davano loro man forte le richieste del Consiglio dei ministri della CEE, a favore di ulteriori misure antinflazionistiche, con tagli alla spesa pubblica e agli investimenti, aumenti delle imposte, innalzamento di alcune tariffe, restrizione del credito, tassazione dei redditi e contenimento dei salari. (pag. 85-86)

Non a caso il governo di centrosinistra presieduto da Moro nel 1964 fu costretto a dimettersi, sancendo la fine della portata innovativa di quell’esperimento politico. (pag. 86-87).

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19 aprile 2023

1.Il sistema economico italiano del primo dopoguerra si fonda su un “modello di sviluppo mercantilistico”;

2. “mancata integrazione delle istanze sociali ed operaie”;

3. effetto: “enorme ciclo di conflittualità industriale sociale che esplose nel 1968-69”;

4. il vincolo esterno europeo viene utilizzato come strumento di stabilizzazione del sistema di cui sopra;

5. Caffè rimprovera ai decisori politici (ma anche alle sinistre) del dopoguerra “di disattendere sistematicamente tanto gli insegnamenti di Keynes quanto i valori della nostra Costituzione”; (pag. 87)

6. viene data priorità “al pericolo inflattivo rispetto ai drammatici problemi dell’occupazione e delle fasce più deboli” … “all’equilibrio della bilancia dei pagamenti e più in generale ai problemi monetari e valutari rispetto a quelli dello sviluppo sociale” (pag. 88)

7. “… adesione acritica dell’Italia alle istituzioni comunitarie e internazionali”;

8. nel mercato comune europeo si afferma inevitabilmente il predominio della Germania; (pag. 89)

9: il mercato comune europeo diventa uno strumento di cui le grandi industrie transazionali si servono per rafforzare e difendere i propri interessi costituiti; (pag. 90)

© Giovanni Lamagna

(continua 2)

Appunti e riflessioni a margine della lettura del libro “Una civiltà possibile La lezione dimenticata di Federico Caffè” di Thomas Fazi 2022 (parte prima)

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10 marzo 2023

“Dall’urgenza di attenuare qui e ora la sofferenza delle persone derivava il “riformismo radicale” di Caffè, allergico tanto ai paladini del sistema che non ritengono non vi sia nulla da riformare – presupponendo che il mercato, se lasciato a sé, sia in grado di produrre risultati ottimali e che dunque qualunque intervento pubblico sia da considerarsi dannoso – quanto ai rivoluzionari che non reputano possibile alcuna riforma e dunque vedono come unica possibilità la “fuoriuscita” dal sistema stesso, nella millenaristica attesa di una “soluzione palingenetica”. Avversari a cui capitava spesso – e capita ancora – di trovarsi, inconsapevolmente, dalla stessa parte della barricata, quella della difesa dello status quo. (pag. 58)

Caffè era molto scettico sull’ipotesi di un crollo imminente del capitalismo, che al contrario considerava ancora molto solido.

E vedeva nel “crollismo” di una certa sinistra e “nella sua delegittimazione di qualunque miglioramento gradualistico del sistema, un involontario alleato del sistema stesso.” (pag. 58)

A pag. 59, Fazi attraverso le parole di Caffè, traccia poi l’identikit del riformista.

“Nel lungo periodo siamo tutti morti” (pag.60)

“… il periodo lungo non è che un insieme di periodi brevi e non viceversa” (pag.60)

“Il pieno impiego non è soltanto un mezzo per accrescere la produzione e intensificare l’espansione. E’ un fine in sé, perché porta al superamento dell’atteggiamento servile di chi stenta a procurarsi un… lavoro, o ha il continuo timore di esserne privato.” (pag.60)

“A tal fine Caffè rivendicava… il ruolo dello Stato quale “occupatore di ultima istanza”… Per Caffè, insomma, era necessario “abbandonare l’idea che la creazione (di posti di lavoro) venga dal mercato”. Perché un lavoro può essere socialmente utile anche se non produce utili (anzi, le due cose tendono a essere inversamente proporzionali)” (pag.61)

Caffè criticò sempre la “politica dei due tempi” – sacrifici oggi e contropartite domani – , un artificio retorico che ha contraddistinto tutta la storia del secondo dopoguerra, fino ai giorni nostri. (pag.61)

“Mantenere su due piani distinti il problema tecnico della produzione e quello sociale dell’equa distribuzione significa praticamente lasciare insoluto quest’ultimo…” (pag. 62)

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11 marzo 2023

“… la disoccupazione è un male materiale ma anche e soprattutto spirituale, sia per l’individuo sia per la collettività. La disoccupazione, infatti, “fa vivere gli uomini nel timore e (…) dal timore scaturisce l’odio”…” (pag. 64)

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15 marzo 2023

Io penso che il capitalismo non solo sia “strutturalmente incapace di assicurare la piena occupazione e un’equa distribuzione di reddito e di ricchezza” (pag. 64-65), ma che si ponga l’obiettivo esattamente contrario: quello di mantenere una quota parte di posti di lavoro sempre liberi e non occupati, in modo da poter contare su un esercito di lavoratori di riserva e porli così in costante competizione gli uni con gli altri, avendo così la possibilità di pagarli con retribuzioni basse, con orari di lavoro elevati e in condizioni di massimo sfruttamento.

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4 aprile 2023

Se ci prendiamo la briga di leggere uno ad uno gli articoli della nostra Costituzione, quella del 1948, possiamo renderci ben conto che la sua attuazione è stata da qualche decennio sostanzialmente disattesa e che essa risulta oramai stravolta; quasi carta straccia.

Basti pensare alle scelte di natura economica, specie a quelle che hanno riguardato il cosiddetto “mercato del lavoro”; qui già l’espressione “mercato del lavoro” dice molto sulla loro ispirazione teorica.

E questo è avvenuto ben prima che arrivassero al potere gli eredi diretti del fascismo, non solo ad opera di governi di centrodestra, ma addirittura ad opera di governi che si dichiaravano progressisti, in quanto espressione di un’area politica sedicente di centrosinistra.

Perfino ad opera di governi capeggiati da o comprendenti esponenti dell’ex PCI.

Questo per dire che ben pochi oggi in Italia sono legittimati a potersi stracciare le vesti, di fronte al pericolo dell’avvento di un nuovo fascismo.

Perché molti lo hanno preparato questo avvento; consapevoli o inconsapevoli che ne fossero, a questo punto, ha ben scarsa importanza stabilirlo.

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Trovo che uno dei punti deboli della nostra Costituzione sia quello di averla fondata sul “lavoro”.

Forse questo è uno dei punti che andrebbe rivisto alla luce delle grandi trasformazioni tecnologiche che ci sono state negli ultimi decenni, soprattutto a seguito della Rivoluzione informatica.

Questa ha, infatti, liberato (almeno potenzialmente) gran parte del tempo che gli uomini prima dedicavano (o, meglio, erano costretti a dedicare) al lavoro.

E poi forse bisogna chiedersi: l’uomo si realizza essenzialmente e principalmente nel lavoro?

Se la risposta a questa domanda resta affermativa, allora forse resta ancora valida l’affermazione della nostra Costituzione che fonda la Repubblica italiana sul lavoro.

Ma, se la risposta fosse adesso negativa, è venuto forse il tempo di dire che il nostro vivere sociale e politico dovrebbe fondarsi su altro e non più sul lavoro.

© Giovanni Lamagna

  • ( 1 continua)

Diario politico (355)

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Lettera aperta a Fausto Bertinotti

Caro Fausto,

ho letto attentamente la tua intervista di venerdì scorso a “l’Unità” e condivido (quasi) integralmente tutte le tesi da te ivi sostenute:

 – la necessità per la sinistra di essere “intelligentemente rivoluzionaria;

 – la necessità di impegnarsi nella battaglia delle idee;

 – la necessità di coniugare conflitto di classe con il conflitto di genere (contro la società patriarcale) e con il conflitto per la difesa della natura (contro una nefasta idea di progresso);

 – la necessità di andare oltre il tema politicista delle alleanze, per impegnarsi in una vera e propria impresa culturale e ricostruire le sue fondamenta;

 – la contrarietà alla guerra senza “se” e senza “ma”;

 – la necessità di battersi per un’Europa autonoma e non subalterna agli Stati Uniti, con la conseguenza di superare la Nato.

Le ho condivise tutte, tranne, però, una: quella in cui dici:

Quello che è necessario è un’ideologia. Noi veniamo da una lunga e controversa discussione sull’ideologia. Rifiutata l’ideologia come falsa coscienza, l’eredità migliore della nostra storia sta nella dimensione delle ideologie, che non era affatto una prigione, bensì un campo arato continuamente nel conflitto di classe e nella riflessione teorica su di esso. Questo processo costituente ha trovato la sua forza, quando l’ha avuta, in questo punto fondamentale, che racchiudeva nell’orizzonte complessivo della costruzione della coscienza di classe, sia l’elemento critico analitico sia la capacità di affrontare il tema della trasformazione. Questa dimensione si chiama ideologia.

Rifiutata l’ideologia come falsa coscienza, quella che Gramsci imputava alla borghesia, si trattava e si tratta di costruire una ideologia, cioè una precisa e critica interpretazione del mondo, dei rapporti sociali e delle forze motrici.

Perché non la condivido?

1.Perché la falsa coscienza, in molti momenti della storia, non l’ha avuta solo la borghesia, ma anche il proletariato, il movimento operaio, quando hanno immaginato che il cambiamento rivoluzionario fosse nelle cose, fosse legato all’evoluzione stessa delle forze produttive (in questo Marx ha qualche responsabilità), anzi che fosse dietro l’angolo e, ancora peggio, che dovesse essere condotto da uno Stato guida, l’Unione Sovietica, tra l’altro sotto la reggenza di un feroce, dispotico, paranoico e sanguinario dittatore, Giuseppe Stalin.

2. L’ideologia è stata anche questo; una concezione rigida, fideistica, dogmatica, a tratti anche fanatica della Storia, per giunta, in molti cuori, fondata su un vero e proprio culto della personalità.

In altre parole l’ideologia non è stata solo il “campo arato continuamente nel conflitto di classe e nella riflessione teorica su di esso” o “un pensiero forte, una Weltanschauung, un’idea generale del mondo”, di cui pure parli tu in un altro punto dell’intervista.

Si tratta, a mio avviso (ma questo oramai mi pare sia entrato a far parte dell’immaginario collettivo) di due cose ben diverse.

Una cosa è l’ideologia, cioè un sistema chiuso, rigido, che dà origine a comportamenti fideistici, irrazionali, in molti casi fanatici; per molti aspetti si può dire, ad esempio, che anche le Brigate Rosse avessero un’ideologia forte e, perfino, in non pochi punti corretta e condivisibile; ma, appunto, la loro era un’ideologia.

Altra cosa è il pensiero forte, una idea, anzi una visione generale del mondo, la Weltanschauung, che, pur fornendo una teoria e quindi un orientamento solido all’azione, cioè alla prassi, sono e restano sistemi connaturatamente aperti e sempre soggetti a revisioni e autocritiche, per loro indole mai inclini ai fideismi, ai dogmatismi, ai fanatismi.

A mio avviso, pertanto, ci conviene eliminare dal nostro vocabolario la parola “ideologia”, come conviene eliminare quella di “comunismo”.

Non perché si tratta di negarne le valenze (non solo teoriche, ma anche storiche) positive, ma perché sono diventate parole usurate, logore, che nell’immaginario collettivo oggi, al di fuori di esigue e residuali minoranze, suscitano rigetto e non impulso al moto rivoluzionario che tu prospetti, auspichi e che io condivido.

Vedo con piacere che la seconda parola (“comunismo”) in questa intervista tu l’hai evitata; e, secondo me, hai fatto bene.

Anche perché la parola evoca inevitabilmente Marx, è indissolubilmente legata al suo pensiero; mentre tu giustamente affermi, perché ne sei convintamente consapevole, che oggi non basta tornare a Marx (che resta un ancoraggio imprescindibile), ma che bisogna andare “oltre Marx”.

E, inoltre, è una parola che è difficile non associare a quella di “dittatura”, per quanto del proletariato; e, dunque, indigeribile per chi ritiene che l’obiettivo dell’uguaglianza (non solo formale) debba essere perseguito sempre assieme a quello della libertà (anche formale).

Avresti fatto bene – secondo il mio modesto parere – ad evitare anche la prima parola (“ideologia”); non – ripeto – per negarne la sostanza positiva e ancora valida, ma per sostituirla con altre meno usurate e logore: – pensiero forte; – visione del mondo; – teoria generale; – Weltanschauung, che meglio possano attrarre l’immaginario collettivo odierno.

Ti ringrazio dell’attenzione e ti saluto cordialmente,

Giovanni Lamagna

Diario politico (354) Sinistra e lotta di classe.

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Sinistra e lotta di classe.

Leggendo il libro di Domenico De Masi “La felicità negata” (2022 Giulio Einaudi editore) apprendo che Ludwig von Mises, il fondatore della moderna teoria economica liberista (che avrebbe gettato ben presto le basi di quello che fu definito neoliberalismo o neoliberismo), era ben consapevole dell’esistenza e della inevitabilità sociale della lotta di classe.

Tanto è vero che sentì il bisogno di elaborare la sua teoria proprio a partite dalla consapevolezza che il marxismo aveva dato al proletariato “una dottrina corrispondente alla propria collocazione sociale” (da “La base psicologica dell’opposizione alla teoria economica”; 1933).

E che, quindi, la borghesia a sua volta si doveva dotare di una sua teoria, in grado di offrirle gli strumenti per poter fronteggiare il suo naturale avversario di classe: il proletariato.

E’ singolare, quindi, che una certa “sinistra” (o, meglio, pseudosinistra) abbia abbandonato l’idea e la pratica della lotta di classe, proprio quando quello che dovrebbe essere il suo naturale avversario di classe (la borghesia) invece la teorizzava e la praticava con piena consapevolezza e potremmo dire pure con cinica spietatezza.

Anche se, a pensarci bene, forse tanto singolare non è: l’abbandono della teoria e della pratica della lotta di classe è, infatti, stato dovuto al fatto che in quelli che una volta erano i partiti della sinistra non è più egemone il proletariato, ma lo è diventata la borghesia.

Possiamo dire che negli ultimi decenni si è avuta una vera e propria occupazione coloniale (innanzitutto culturale, ma in fondo anche numerica e quantitativa) da parte di ampi settori della borghesia di un’area che un tempo era incontestabilmente territorio del proletariato.

Ovviamente, una volta consolidatasi, questo strutturale cambiamento nei rapporti di forza tra il proletariato e la borghesia ha avuto i suoi riflessi anche nella teoria e nelle pratiche di quelli che una volta erano i partiti storici della sinistra, modificandone lo stesso codice genetico.

La borghesia non poteva di certo fare la guerra a sé stessa!

© Giovanni Lamagna

Diario politico (353) Sul Congresso del PD.

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Il Congresso del PD non mi appassiona più di tanto.

Io mi considero da sempre un uomo di sinistra e il PD, invece, non ha niente, da quando è nato, di sinistra.

Non è un caso, non è un fatto semplicemente nominalistico, che nel suo acronimo non compaia più la lettera “s”, che ancora contraddistingueva, invece, gli ultimi eredi del PCI.

E’ il prezzo che costoro hanno dovuto pagare (scelta scellerata!) per fondersi con gli eredi della DC.

Il PD non è un partito di sinistra (almeno a mio avviso) fondamentalmente per due motivi:

1. le sue scelte di politica economica sono da sempre sostanzialmente neoliberiste e filo-padronali: ha così perso come primo riferimento sociale quello dei ceti legati al mondo del lavoro dipendente (che erano invece il riferimento principale del PCI) ed è diventato sempre più il partito di riferimento dei ceti medi più o meno benestanti e persino dei proprietari di aziende, soprattutto di quelle grandi;

2. in politica estera è un partito fortemente filoatlantico e filoeuropeista, senza “se” e senza “ma”, sempre e comunque, ovverossia senza nessuno spirito critico e senza nessuna autonomia; accetta pertanto le direttive economiche dell’Europa senza colpo ferire e si piega supino alle decisioni della Nato e degli Stati Uniti senza nessun distinguo, anzi facendo spesso il “primo della classe” (vedi guerra in Ucraina).

Ho indicato qui solo due motivi per i quali il PD non può essere considerato di sinistra, ce ne sono anche altri, ma quelli citati bastano e avanzano per sostenere la mia tesi.

Cosa sperare allora da un partito fatto così?

A mio avviso si illudono dunque quelli (come, per fare solo due nomi, Goffredo Bettini ed Andrea Orlando) che sperano ancora che il Pd possa essere recuperato al campo della Sinistra.

Il PD non solo non è mai stato di sinistra, ma ha fatto oramai troppa strada in una direzione addirittura opposta a quella della Sinistra, perché si possa sperare minimamente che diventi un partito di sinistra.

Ecco perché il dibattito che si sta svolgendo al suo interno, dal dopo elezioni in poi, dal 25 settembre scorso, non mi appassiona neanche un po’, anzi per nulla.

Che sia pace dunque all’anima sua! Che i morti seppelliscano i loro morti!

© Giovanni Lamagna