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Diario politico (123)

di Giovanni Lamagna

13 novembre 2015

Oggi vorrei parlare dei rapporti che intercorrono tra le idee di politica, forza, violenza e democrazia.

Sono intimamente convinto che chi ritiene politicamente legittimo il ricorso alla violenza (di qualsiasi tipo: da quella minima, consistente nel voler impedire all’avversario politico di manifestare per affermare le sue idee, a quella massima, della vera e propria lotta armata) abbia in sé una propensione (anche se latente, anche se nascosta, anche se ricoperta da ideologie progressiste, anche se non del tutto consapevole) verso il fascismo, cioè verso una concezione non democratica dei rapporti politici e della convivenza sociale.

Dunque ha poca importanza per me che, in teoria e a parole, sostenga idee, cioè contenuti politici, di destra, di centro o di sinistra.

In modo particolare poi la violenza fisica (da quella minima dello spintonamento dell’avversario a quella massima dell’uccisione dell’avversario) è per me la negazione stessa del confronto democratico.

Perché con la violenza fisica io non colpisco tanto o solo le idee del mio avversario, ma colpisco innanzitutto il suo corpo, che con le idee non ha niente a che fare, in casi estremi attento alla sua stessa vita, che, per me democratico, è (o dovrebbe essere) il valore più sacro.

Per il vero democratico, per il democratico integrale, la vita è sacra, tutte le vite sono sacre, a prescindere dalle idee che sostengono. Anche la vita del mio peggiore avversario politico è sacra. Questo principio distingue un autentico democratico da chi democratico non è. Esso è per me un postulato della concezione democratica.

Ancora. Il ricorso all’uso (ritenuto legittimo) della violenza politica sdogana, nei fatti, il principio della militarizzazione dello competizione politica.

E, per conseguenza, l’idea che, almeno in alcune circostanze, da essa debbano ritenersi escluse, per manifesta inferiorità fisica, alcune categorie di persone: i molto giovani, i non più giovani, gli ammalati o gli handicappati, le donne, per non parlare dei vecchi.

La politica, quindi, almeno in alcune circostante, sarebbe terreno riservato ai soli giovani di “sana e robusta costituzione”.

Può essere considerata democratica una tale idea della politica, che implicitamente pone limiti alla partecipazione universale dei cittadini alla vita della polis? Non sa piuttosto di tipico, genuino, “sano” e virile fascismo?

Altra cosa è l’idea di forza. Non ci sono dubbi che la politica sia anche una prova di forza tra soggetti contrapposti, ognuno dei quali tende a prevalere sugli altri.

Ma qui si tratta di intendersi su che cosa è la forza. Se per forza intendiamo quella fisica e quella militare, siamo in piena ideologia fascista. Se per forza intendiamo la capacità di conquistare il consenso in maniera pacifica, col metodo della persuasione, con gli argomenti della ragione e della parola, allora stiamo parlando e ragionando di democrazia.

Ancora. Sostenere l’argomento “a violenza non si può rispondere che con la violenza” significa, a pensarci bene, avallare, sdoganare (anche e perché no?) perfino l’idea della pena di morte, che è, appunto, una violenza che risponde ad un’altra violenza, incapace di interrompere la spirale innescata dalla violenza di chi ha commesso un reato.

Una società democratica, invece, per sua natura è (o dovrebbe essere) un sistema che gestisce in un modo pacifico i conflitti che nascono al suo interno, anche quello innescato dal reato più grave, come è un omicidio.

In un solo caso, forse, (e non ne sono manco del tutto convinto) è legittimo per me il ricorso all’uso della violenza fisica: quando è in atto nei miei confronti una violenza fisica, quando è l’altro che mi aggredisce per primo. Quindi solo per legittima difesa.

In questo caso, pur rimanendo per me valide, in linea di principio, tutte le obiezioni che ho fin qui mosso all’uso politico della violenza, entra in gioco il principio della salvaguardia del male minore: di fronte al rischio che sia la mia vita a soccombere, io provo (non è detto che ci riuscirò, ma, perso per perso, almeno ci provo) a far soccombere la tua che attenta alla mia.

E manco, ripeto, ne sono del tutto convinto. Perché, se io considero sacra la vita (la vita in generale e non solo la mia, la vita in assoluto e non la mia prima di quella dell’altro o degli altri), allora posso arrivare anche alla scelta estrema (teorica, etica e pratica, quindi politica) di rinunciare a difendere la mia vita pur di non offendere la tua.

Utopia? Sì, certamente! Una prospettiva e una scelta che obiettivamente superano (forse) le normali e umane possibilità e capacità dell’essere umano.

Ma non sono scelte di queste tipo che muovono e fanno andare avanti la storia? Non sono forse le utopie che ci aiutano a camminare, a vedere il futuro, a non essere prigionieri del presente o, addirittura, del passato?

E poi non l’aveva detto Voltaire, già alcuni secoli fa: “Anche se non condivido le tue idee, darei la vita perché tu possa esprimerle”?

E non è forse proprio Voltaire l’immagine ideale, il modello del vero democratico, il Maestro di tutti i convinti democratici?