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3.4. In che modo si potrà realizzare l’alternativa al capitalismo?
Per rispondere a questa domanda Mancini fa una delle analisi a mio avviso più interessanti del suo libro, “Ripensare l’economia”. Egli afferma che il capitalismo odierno ha una struttura triadica, composta cioè da tre dimensioni:
- una dimensione tecnica, cioè quella che definiamo comunemente la struttura economica della società; costituita dalle imprese, dai lavoratori, dalle banche, dalle borse… e così via;
- una dimensione culturale e politica, costituita dagli apparati culturali (pensiamo al ruolo dei mass media) e dalle istituzioni politiche che sono funzionali al sistema economico capitalista;
- infine, una dimensione mitica, quella utilizzata sia dagli apparati culturali che da quelli istituzionali per diffondere e mantenere l’egemonia del capitalismo.
Io ho usato la parola “infine” per introdurre la terza dimensione. In realtà la dimensione mitica del capitalismo è fondamentale, è la prima, quella più profonda, su cui tutto il sistema si regge. Se crollasse questa, crollerebbe l’intero sistema.
Il capitalismo, infatti, si è affermato nella storia cinque secoli fa ed è ancora tuttora egemone, perché è riuscito a far passare nell’immaginario collettivo e, quindi nella cultura e, quindi, nelle istituzioni politiche e, infine, nella struttura dell’economia, la sua idea di uomo, quella appunto dell’homo oeconomicus, di cui abbiamo parlato prima.
Ne consegue che ogni ipotesi di cambiamento, di alternativa a questo sistema socioeconomico o parte da un’altra idea possibile di “uomo” e di “Umanità” o è destinata a fallire.
La svolta o sarà prima di tutto etica e antropologica, o comincerà dal cuore degli uomini e poi investirà la cultura, le istituzioni politiche e infine il modo di produrre e le relazioni sociali all’interno del mondo della produzione o semplicemente non sarà.
Oppure sarà una svolta superficiale, destinata a rifluire e a durare poco. Non sarà insomma una vera svolta radicale.
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3.5. Per realizzare l’alternativa al capitalismo: riforme o rivoluzione?
“Riforme” e “rivoluzione” sono le due parole chiave, che hanno caratterizzato il dibattito politico di fine ‘800 e di tutto il ‘900, almeno a sinistra. Mancini trova che entrambe queste parole siano inadeguate.
La prima, la parola “riforme”, perché non è all’altezza dei problemi che il capitalismo pone e soprattutto della crisi profonda che sta attraversando da oramai quasi dieci anni.
Chi parla di riforme oggi non intende certo mettere in discussione il sistema capitalistico, ma solo tentarne degli aggiustamenti. E il più delle volte anzi le riforme proposte sono sfavorevoli ai lavoratori e utili solo agli interessi dei capitalisti.
La seconda parola, “rivoluzione”, è per Mancini inutilizzabile non solo perché lascia sul campo morti e feriti e quindi è contraria all’idea di uomo che egli sostiene. Ma soprattutto perché essa, ammesso e non concesso che si realizzi, prima o poi involve, si trasforma nel suo contrario, realizza scopi ed obiettivi (quasi sempre) opposti a quelli per cui era stata pensata e realizzata. Come ha dimostrato la Rivoluzione sovietica in Russia.
Le parole che a Mancini sembrano più adeguate per esprimere il cambiamento da lui auspicato sono quelle di restituzione e di trasformazione.
La prima sta a indicare “la restituzione dei diritti a quanti ne sono stati privati e dei doveri a coloro che li hanno elusi a danno degli altri”.
“La trasformazione è un grande, lento processo collettivo di liberazione dall’iniquità e di gestazione delle condizioni per fare della giustizia risanatrice il vero fondamento della società.”
La società – dice Mancini – è “un sistema di sistemi, ognuno dei quali è a sua volta organizzato in sottosistemi”.
La trasformazione, di cui egli parla, dovrà realizzarsi al livello dei vari sistemi e sottosistemi e nella interazione tra i cambiamenti che avverranno ai vari livelli.
Per forza di cosa, quindi, non potrà che essere lenta e graduale.
Il mio pensiero al riguardo è che non sia necessario rinunciare ai termini “riformismo” e “rivoluzione” e che sia possibile ipotizzare un “riformismo rivoluzionario per una democrazia radicale”, come fa da tempo Paolo Flores D’Arcais.
Per me l’azione politica del soggetto, anzi dei soggetti della trasformazione dovrà essere rivoluzionaria quanto ai fini e agli obiettivi, ma riformista quanto ai tempi e ai metodi.
Dovrà quindi mirare a trasformazioni per forza di cose graduali e realizzate col consenso democratico, senza cioè nessuna forzatura di presa violenta del potere.
Ma, allo stesso tempo, dovrà mirare a trasformazioni profonde, anzi radicali, del sistema economico, sociale, culturale, istituzionale e politico, nel quale si troverà ad operare.
Dovrà, quindi, puntare al superamento del capitalismo per via democratica e nonviolenta.
Giovanni Lamagna
(continua, 12)