Perché le tasse non vanno abbassate.
In una fase storica in cui va molto di moda la frase “bisogna diminuire le tasse”, non c’è (quasi) nessun esponente politico che non la ribadisca ad ogni piè sospinto e tale opinione è diventata oramai senso comune, quasi universale, come se tutti (ricchi e poveri, ceto medio alto e ceto medio basso) traessero vantaggio (uguale vantaggio) da questa misura fiscale.
Io amo, invece, dire che non solo le tasse non vanno abbassate, ma che le tasse (almeno quelle dei ricchi) vanno elevate.
C’è più di un motivo per argomentare questa tesi: proverò ad esporli.
Il primo. Non è vero che l’abbassamento delle tasse conviene a tutti. Conviene, infatti, soprattutto, anzi solo, ai ricchi. Perché mentre i poveri o il ceto medio vengono a risparmiare cifre modeste, visti i loro redditi modesti, i ricchi vengono a risparmiare moltissimo, visti i loro redditi elevati.
Come la storia di questi ultimi tre decenni, da quando le aliquote fiscali sono state progressivamente e sempre più vistosamente abbassate, specie quelle dei ricchi, ci può testimoniare ad abundantiam. Si è, infatti, scandalosamente allargata la forbice tra i pochi ricchi che sono diventati sempre più ricchi e i moltissimi del ceto medio o dei ceti bassi che si sono impoveriti sempre di più.
Il secondo motivo. L’abbassamento delle tasse comporterà una inevitabile diminuzione del gettito fiscale. Ora tutti noi sappiamo che il gettito fiscale di un paese serve a finanziare il suo sistema di welfare. La diminuzione di questo gettito comporterà dunque inevitabilmente un taglio alle spese sociali (sussidi di disoccupazione, pensioni…) e ai servizi (scuole, ospedali, strade, autostrade, manutenzione delle strutture pubbliche, pubblica amministrazione…). Con conseguente ricorso, in molti settori, alla supplenza del privato, se non alla vera e propria sostituzione del pubblico con il privato. E correlativo aumento dei costi a carico degli utenti per accedere ai servizi di pubblica e sociale utilità.
Come è del tutto evidente, questo sistema (che potremmo definire di progressiva e sempre più ampia sostituzione del pubblico con il privato) non danneggia se non in minima parte i ricchi, i quali possono permettersi a qualsiasi tariffa i servizi sociali privati, mentre danneggia moltissimo il ceto medio e, soprattutto, quello basso, i quali non hanno (talvolta i primi e quasi mai i secondi) la possibilità economica di usufruire dei servizi sociali e assistenziali privatizzati o rimasti pubblici, ma con ticket di accesso (in molti casi notevolmente) maggiorati.
Il terzo, quarto e quinto motivo sono di ordine costituzionale. Ci sono almeno tre articoli della Costituzione italiana del !948 il cui spirito vieta (nei fatti, se non alla lettera) l’abbassamento delle tasse.
Innanzitutto l’art. 53: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva.
Il sistema tributario è informato a criteri di progressività.”
Ora, se si abbassano per tutti le tasse in uguale proporzione, diminuiranno le entrate dello Stato finalizzate a finanziare le spese pubbliche e diminuiranno in proporzione maggiore proprie le entrate legate alla tassazione di chi ha maggiore capacità contributiva.
In pratica il sistema tributario, con l’abbassamento generalizzato delle tasse (quand’anche si abbassassero per tutti in uguale proporzione), tende a diventare meno “informato a criteri di progressività”. E, quindi, a contraddire l’art. 53 della Costituzione italiana.
L’art. 3 della Costituzione afferma poi: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e la eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”
Qui il testo costituzionale è chiaro: parla non solo di uguaglianza formale (“tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge”), ma anche di uguaglianza sostanziale (cioè “di ordine economico e sociale”), almeno come tendenza, come finalità politica dello Stato repubblicano.
Ora per realizzare l’uguaglianza di ordine economico e sociale la Repubblica deve rimuovere gli ostacoli che vi si frappongono. Ha bisogno quindi di risorse. E in che modo può trovare queste risorse? Attraverso il sistema tributario, che deve essere (appunto!) “informato a criteri di progressività”, deve cioè togliere ai più abbienti (specie ai ricchi) e dare ai meno abbienti (specie ai poveri).
Né vale il discorso che ho sentito fare negli ultimi anni addirittura a dei “sindacalisti”, i quali dicevano che era stato necessario firmare degli accordi in perdita per i lavoratori (ad esempio, quelli con la Fiat di Marchionne) perché, in tempi di crisi economica, anche i diritti devono essere considerati flessibili, una varabile dipendente e non autonoma, assoluta.
Quei sindacalisti dimenticavano o facevano finta di non accorgersi che, mentre la crisi opprimeva pesantemente i lavoratori, in molti casi arricchiva in maniera speculare i proprietari e i grandi manager delle aziende, tanto è vero che in questi ultimi tre decenni sono cresciute a dismisura le disuguaglianze sociali.
Tutto ciò era ed è vietato dall’art. 3 della Costituzione italiana. E l’art. 53 dice pure il modo per impedirlo: attraverso la progressività della tassazione dei redditi. In tempi di crisi tale progressività andrebbe (addirittura) accentuata, proprio per colmare o quantomeno limitare la divaricazione dei livelli reddituali.
Tutto il contrario di quello che, invece, è stato colpevolmente fatto, sia dai governi di centrodestra che da quelli di centrosinistra. Con il risultato che le disuguaglianze economiche sono enormemente cresciute, in barba alla lettera e allo spirito della Costituzione italiana.
Infine, ci sovviene l’art. 41 della Costituzione. Uno degli argomenti che viene utilizzato più frequentemente per motivare l’abbassamento delle tasse è che la pressione fiscale sarebbe arrivata a livelli intollerabili, in alcuni casi alle soglie del 50%. E questo costituirebbe una minaccia, anzi un vero e proprio attentato a ciò che un cittadino si è legittimamente guadagnato, un attentato quindi all’iniziativa economica privata.
L’art. 41 della Costituzione così recita: “L’iniziativa economica privata è libera.
Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da arrecare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.
La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.”
Questo articolo della Costituzione è chiarissimo: viene riconosciuta la legittimità dell’iniziativa economica privata. Quindi indirettamente anche quella della proprietà privata. Ma viene anche detto (chiarissimamente) che sia l’una che l’altra devono avere finalità sociali.
Viene, quindi, detto indirettamente che la ricchezza privata è giustificata (solo) se non si pone in contrasto (tra l’altro) con la dignità umana. In altre parole se non è in contrasto con la povertà di altri cittadini.
Dal che si deduce che, attraverso il sistema di tassazione, la ricchezza privata deve contribuire (anche attraverso, perché no, aliquote molto elevate) alla eliminazione delle povertà (laddove essere fossero presenti) e ad assicurare a tutti i cittadini della Repubblica italiana una vita almeno dignitosa (art. 3).
Non è da mettere in discussione dunque la pesantezza del carico fiscale, ma l’esistenza delle povertà. Il carico fiscale non può essere unilateralmente abbassato persistendo le povertà. Solo quando e se queste fossero eliminate del tutto, si potrebbe legittimamente pensare di diminuire il carico fiscale (anche) dei più abbienti.
Dai cinque argomenti su esposti mi pare si evince ampiamente che le politiche fiscali (ed economiche in generale) portate avanti dai governi italiani negli ultimi 30 anni sono andate contro la lettera e soprattutto contro lo spirito della Costituzione. Non a caso negli stessi anni numerosi sono stati i tentativi di modificare la Costituzione.
A mio avviso questi tentativi male celavano l’intenzione di modificare lo spirito stesso, profondamente egualitario, della Costituzione italiana. Non miravano quindi solo ad “ammodernarne” gli apparati istituzionali, come, a parole, ipocritamente si diceva e si voleva far intendere.
Anche se poi di fatto, nella prassi, tale spirito egualitario è stato comunque fortemente sconvolto, tanto è vero che oggi possiamo parlare dell’esistenza di una Costituzione materiale profondamente in contrasto con quella letterale emanata nel 1948, pur formalmente rimasta in vigore (quasi) intatta.
Proprio grazie, in modo particolare, all’abbassamento progressivo delle tasse e alle parallele modifiche radicali della legislazione in materia di mercato del lavoro, che si sono avuti in questi ultimi tre decenni.
Giovanni Lamagna