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Non ci sono dubbi che in democrazia il voto di ogni cittadino debba valere lo stesso che il voto di tutti gli altri cittadini.
La nostra Costituzione, all’art. 48, così recita: “Il voto è personale ed uguale, libero e segreto.”.
In questo senso è del tutto vero che in democrazia, come dicono (o dicevano i grillini) “uno vale uno”.
Quello che vale per i votanti, ovverossia per quello che viene comunemente definito “l’elettorato attivo”, non vale, non può valere, però per gli eligendi e gli eletti, cioè per “l’elettorato passivo.
Per aspirare a rappresentare il popolo in un’istituzione parlamentare di qualsiasi livello o addirittura in quelle di governo (anche qui di qualsiasi livello) occorrono (e, quindi, dovrebbero valere) delle competenze.
Mentre tutti hanno il diritto al voto (e in questo senso “uno vale uno”), non tutti hanno (o dovrebbero avere) il diritto a rappresentare il popolo o a governare le istituzioni (da questo punto di vista l’espressione “uno vale uno” decade).
Di certo ciascun cittadino – in democrazia – ha il diritto di scegliersi i suoi rappresentanti e governanti; e in questo senso il suo voto vale quello di ogni altro cittadino (“uno vale uno”).
Ma ciascun cittadino ha anche il diritto (e io aggiungerei persino il dovere morale) di scegliersi rappresentanti e governanti che siano all’altezza del compito, al quale vengono eletti.
Che abbiano quindi delle competenze specifiche e speciali, superiori (almeno in ipotesi) a quelle degli altri comuni cittadini; e in questo senso “l’uno vale uno” non vale più, decade.
Possiamo concludere, dunque, che, nel momento in cui vota, il cittadino comune delega a persone che egli ritiene idonee, quindi competenti, parte del suo potere di cittadino, uguale nei suoi diritti e doveri a tutti gli altri cittadini.
In qualche modo, dunque, mette le persone elette, per quanto in maniera provvisoria e quindi revocabile, su una posizione più elevata rispetto a sé stesso, le riconosce in una qualche misura “superiori”.
La democrazia ha bisogno dunque di eguaglianza (tutti i cittadini valgono uno nel voto e sono eguali in questo agli altri cittadini), ma anche di distinzioni e (diciamolo pure) di disuguaglianza di ruoli.
Ci sono alcuni cittadini che ricoprono (perché eletti) incarichi superiori a quelli degli altri cittadini comuni e per fare questo hanno (o dovrebbero avere) delle competenze particolari.
La democrazia ha quindi bisogno delle competenze (per cui non è vero che “uno vale uno”) come ha bisogno dell’uguaglianza (ed è quindi vero che “uno vale uno”).
Perché i due principi riescano a conciliarsi occorre che tra cittadino elettore e cittadino eletto ci sia fiducia, che il primo si fidi del secondo.
E qui casca l’asino ed è qui che la democrazia spesso si inceppa.
Perché spesso il meccanismo del voto di delega si fonda non sul riconoscimento delle reali competenze di chi mandiamo a rappresentarci o governarci, ma su una sorta di scambio (più o meno clientelare) tra chi elegge/vota e chi viene eletto/votato.
Abbiamo così una classe politica che viene indubbiamente scelta dal popolo (quindi formalmente del tutto legittima), ma di cui il popolo stesso poi non ha fiducia.
Perché è stata eletta con meccanismi inadeguati, non del tutto limpidi, se non proprio disonesti.
Una classe politica delegittimata nel momento stesso in cui viene scelta, votata: un po’ come il cane che si morde la coda.
Di chi la colpa? Di chi si fa eleggere in questo modo e in qualche modo (più o meno grave) corrompe il popolo o di chi (il popolo) rinuncia al suo potere di delega e si fa corrompere?
A mio avviso, di tutti e due; ma in prima istanza la colpa è del popolo che non elegge suoi rappresentanti all’altezza del compito che affida loro.
Ogni popolo, dunque, ha in buona sostanza (almeno per me) la classe politica che si merita.
© Giovanni Lamagna