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Quale nuova impostazione al governo del mondo?

Qualche giorno fa, a commento di un mio post su facebook, in cui, citando il Papa, avanzavo l’esigenza di un modo radicalmente nuovo di regolare le relazioni internazionali e la necessità storica (dovuta all’incombere minaccioso del mostro nucleare) di risolvere in maniera pacifica, senza più ricorso alle armi, le controversie che periodicamente insorgono tra le nazioni, una mia amica, Valentina Molese, così mi ha scritto:

Praticamente qual è l’alternativa sul tavolo? Proprio nei fatti: come materialmente si declina questa nuova impostazione dell’ordine globale? Come può evitare che le città vengano rase al suolo e la popolazione evacuata o uccisa? Quali sono le azioni in campo? Facile dire pace. La vogliamo tutti la pace. La dietrologia sulle responsabilità penso serva poco in questo momento. I fatti sono i fatti. Aperta ad aderire a una risposta non belligerante laddove venga esposta nella sua fattività.”

Ed io così le ho risposto.

La domanda che pone Valentina Molese a chi – modestamente come me o autorevolmente come il Papa, – avanza l’esigenza di una “nuova impostazione dell’ordine globale” è fondamentale e richiede una risposta convincente, che prospetti, almeno come ipotesi di lavoro, soluzioni concrete e non astratte, non di puro richiamo ai principi e ai valori, ma praticabili realisticamente ed efficacemente nelle situazioni date, ad esempio in una situazione come quella in cui si sono trovati gli Ucraini, immediatamente prima e dopo l’invasione dell’esercito russo, e con loro le nazioni dell’Occidente, che si sentono minacciate a loro volta dall’orso slavo.

Tale risposta, però, richiede a sua volta (me lo consentano Valentina e quanti condividono e pongono il suo stesso interrogativo) una premessa: la presa d’atto comune che le misure tradizionali che sono state anche questa volta adottate di fronte all’invasione russa (la risposta armata ad un attacco armato) non si stanno certo dimostrando adatte ad evitare distruzioni, ferite, morti, eccidi, evacuazioni di massa, che pure avrebbero voluto impedire (o quantomeno limitare) e che potrebbero rivelarsi anzi solo l’inizio di una tragedia immane, laddove la guerra dovesse durare ancora molto tempo o avere addirittura un ulteriore escalation.

Tale premessa non mi esime però dall’obbligo di una risposta alla domanda di Valentina: come contrastare la violenza di un invasore senza ricorrere alla violenza (pur giuridicamente legittima) di chi è stato invaso e di chi vuole soccorrere l’invaso?

La risposta non può che essere articolata, perché prevede diverse proposte, alcune delle quali, se attuate, avrebbero potuto o potrebbero avere una ricaduta nel breve periodo, altre una ricaduta nel medio/lungo periodo.

La prima proposta prevede l’invio da parte di tutte le nazioni disponibili (in primis quelle occidentali, ma non solo) nel territorio di combattimento di forze di interposizione pacifiche, quindi non armate, dei corpi di volontari per la pace (Corpi Civili di pace), con l’obbiettivo di separare i due eserciti che in questo momento si stanno affrontando militarmente.

Ovviamente questo tipo di intervento andrebbe contrattato preventivamente con i capi delle due nazioni attualmente in guerra.

Oggi, allo stato in cui sono giunte le cose, si potrebbe provare a proporlo, ma molto probabilmente troverebbe il diniego sia dell’uno che dell’altro o, almeno, di uno di essi; molto probabilmente di quello che ha invaso.

Andava messo in campo ben prima che la crisi esplodesse nello scontro armato. Proporlo oggi avrebbe però comunque un valore simbolico e metterebbe alla prova la buona volontà dei due contendenti a fare la pace.

La seconda proposta è quella di organizzare azioni di disobbedienza civile o di resistenza nonviolenta all’invasione russa da parte della popolazione ucraina invasa: scioperi, non collaborazione, boicottaggio, blocchi stradali…

Anche questa misura non si può certo improvvisare; va preparata bene e obiettivamente non è facile, anzi è quasi impossibile, organizzarla oggi in pieno conflitto.

Questo non vuol dire però che non sarebbe stata efficace, se fosse stata preparata per bene, prima di arrivare allo scontro armato; in alternativa all’invio di armi, che è stata considerata invece da subito come l’unica soluzione praticabile.

La terza misura consiste nella valorizzazione, convinta e decisa, degli organismi internazionali, in primis l’ONU, a cominciare dalla rinuncia (anche unilaterale, a mo’ di esempio, da parte di una o solo alcune di esse) del diritto di veto finora riservato alle cinque principali nazioni vincitrici del II conflitto mondiale.

Se questa misura venisse condivisa, l’ONU potrebbe diventare col tempo sempre più l’organismo autorevole e sovranazionale, in grado di dirimere le controversie internazionali, avendone strumenti e sovranità.

La quarta misura dovrebbe prevedere programmi di cooperazione internazionale, di lotta alle disuguaglianze, a partire ovviamente da quelle economiche, di democratizzazione reale e non solo formale delle istituzioni, di educazione alla pace e alla risoluzione pacifica dei conflitti, con la finalità di rendere la democrazia desiderabile e quindi contagiosa e perciò estendibile in forme naturali e spontanee, non certo per imposizione autoritaria o addirittura militare.

Ovviamente queste misure, come è del tutto evidente, non devono essere considerate come un toccasana miracoloso, in grado di impedire sempre e comunque le guerre.

Oltretutto, come si è detto, non possono essere improvvisate; devono essere preparate e finanziate adeguatamente e per tempo.

Ci indicano, però, una via alternativa concreta (sempre che si abbia la volontà politica di attuarle) alla risposta militare di fronte ad un’ipotesi di attacco militare.

Ci dicono che sarebbe possibile preparare la pace con strumenti pacifici, senza ricorrere a quelli di guerra.

Ovviamente richiedono una decolonizzazione dell’immaginario collettivo sui temi storici della pace e della guerra, una decostruzione dell’antico pensiero “si vis pacem, para bellum”.

E soprattutto la volontà politica di contrastare gli interessi criminali che entrano in gioco, quando si annunciano venti di guerra: in primis ovviamente quelli delle industrie belliche.

In altre parole richiedono un rivoltamento radicale del sistema di cui siamo attualmente parte; un rivoltamento innanzitutto ideale, valoriale e poi economico, sociale, culturale, politico, istituzionale.

Esattamente il contrario della difesa dei “sacri valori dell’Occidente”, di cui molti in questi giorni si riempiono la bocca, come se la storia di questa parte del mondo fosse fatta solo di “magnifiche sorti e progressive” di cui gloriarsi.

E non fosse anche una storia infinita di guerre, di crimini, di eccidi, di sfruttamento spietato e intensivo di esseri umani e risorse materiali, di cui vergognarsi e da cui emendarsi.

© Giovanni Lamagna