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La morte di Paolo Pietrangeli: alcune riflessioni sulle contraddizioni ancora vive e non risolte del ’68.
Una cultura politica non è fatta solo (e io direi manco principalmente) di enunciazioni teoriche; è fatta soprattutto di simboli, atmosfere, relazioni, stili di vita, rituali, memorie.
Ci sono momenti in cui le culture politiche (e i soggetti collettivi e individuali che in esse si sono riconosciuti) cambiano (alla luce delle mutate circostanze storiche e delle esperienze maturate) le loro enunciazioni teoriche e magari anche (almeno in parte) le modalità relazionali e gli stili di vita, ma non i simboli e i rituali, a cui quei soggetti individuali e collettivi erano abituati e sono rimasti affezionati, per cui vengono vissuti da essi ancora con profonda nostalgia.
Ne ho avuto conferma proprio in questi giorni, segnati dalla morte del cantautore Paolo Pietrangeli, una delle icone più note del ’68 italiano.
Ho letto, infatti, necrologi di molti compagni, alcuni dei quali conosco bene e di cui mi sento persino amico, molti di loro persone del tutto miti, nonviolente, di sicura fede democratica, alcuni persino dolcissimi nel modo di relazionarsi, che, nel ricordare il cantautore appena scomparso, ne citavano la sua canzone più nota, “Contessa”, le cui parole (almeno alcune di esse: sangue, martello, picchiate, guerra, finire sottoterra, sputategli addosso…), sia pure in nome di nobilissimi (e anche da me condivisi) ideali di giustizia e di uguaglianza, non possono certo essere inscritte nel vocabolario della mitezza e della nonviolenza.
Per cui mi chiedo: come si possono conciliare le due cose? come si può conciliare la mitezza indubbia di questi miei compagni con le parole di una canzone che essi rievocano con nostalgico rimpianto, come una delle colonne sonore della loro giovinezza, e che sono (molte di esse) decisamente truculenti, veterocomuniste, espressione di una cultura socialista e comunista molto più simili a quelle dell’800 o del primo ‘900 che a quelle del secondo ‘900.
Riporto qui integralmente il testo della canzone citata, per dare eventualmente modo a chi sta leggendo questa mia nota e non la ricorda più bene di confrontarsi con le mie perplessità e valutazioni.
Queste le parole della canzone citata:
“Che roba contessa, all’industria di Aldo han fatto uno sciopero: quei quattro ignoranti, volevano avere i salari aumentati, dicevano, pensi, di essere sfruttati.
E, quando è arrivata la polizia, quei quattro straccioni han gridato più forte, di sangue han sporcato i cortili e le porte, chissà quanto tempo ci vorrà per pulire.
Compagni dai campi e dalle officine, prendete la falce e portate il martello, scendete giù in piazza e picchiate con quello, scendete giù in piazza e affossate il sistema.
Voi gente per bene che pace cercate, la pace per fare quello che voi volete, ma, se questo è il prezzo, vogliamo la guerra, vogliamo vedervi finire sottoterra.
Ma, se questo è il prezzo, lo abbiamo pagato, nessuno più al mondo dev’essere sfruttato.
Sapesse, contessa, che cosa mi ha detto un caro parente dell’occupazione, che quella gentaglia rinchiusa là dentro di libero amore facea professione.
Del resto, mia cara, di che si stupisce, anche l’operaio vuole il figlio dottore e pensi che ambiente ne può venir fuori, non c’è più morale, contessa.
Se il vento fischiava, ora fischia più forte, le idee di rivolta non sono mai morte, se c’è chi lo afferma, non state a sentire, è uno che vuole soltanto tradire.
Se c’è chi lo afferma, sputategli addosso: la bandiera rossa ha gettato in un fosso.”
La mia domanda, frutto di forti perplessità e di franco stupore, penso che abbia un’unica spiegazione possibile: oggi ci troviamo in un momento di profonda crisi delle culture politiche dell’800 e del 900, magnificamente sintetizzata dalla famosa frase di Gramsci “Crisi è quel momento in cui il vecchio muore ed il nuovo stenta a nascere”.
Sono morte o moribonde le vecchie culture politiche (compresa quella figlia del ’68) e non sono ancora nate nuove culture politiche all’altezza di quelle, ma in grado di esprimere adeguatamente l’attuale spirito del tempo.
Questo spiega, a mio avviso, non riesco a trovare altra spiegazione, la reazione dei miei amici/compagni.
Alcuni dei quali – ne ho un ricordo vivido – si sono battuti come me, in un passato ancora prossimo, per la nascita di un nuovo soggetto politico, che fosse espressione di una cultura politica profondamente nuova.
E che però oggi, di fronte alla morte di un compagno del ’68, ne vivono con (neanche tanto malcelata) nostalgia “simboli, atmosfere, relazioni, stili di vita, rituali”, che invece (ne sono sicuro) sono ben consapevoli essere oramai del tutto superati e, forse, manco all’epoca del tutto giustificabili.
Tanto è vero che sono stati sonoramente sconfitti dalla Storia, dando origine ad un evidente, anzi vistoso, riflusso e in alcuni casi ad una vera e propria deriva di quel movimento (il famoso ’68), che pure era nato con tante speranze, aspirazioni e nobili ideali.
© Giovanni Lamagna