La crisi della sinistra italiana: radici e cause antiche. Contributo alla discussione in corso.
1.A quando risale la crisi?
La crisi della Sinistra italiana, che si è manifestata con drammatica evidenza, come mai forse finora, alle ultime elezioni politiche del 4 marzo scorso, ha per me radici e cause antiche. Risale oramai a quasi trent’anni fa.
Due sono gli anni che ne segnano gli inizi, perlomeno quelli più vistosi ed evidenti: – il 1989, anno della caduta del muro di Berlino (9 novembre) e della svolta della Bolognina di Achille Occhetto (12 novembre); – il 1991, anno della dissoluzione dell’URSS (26 dicembre) e dello scioglimento del Partito Comunista Italiano e della sua trasformazione nel PDS (3 febbraio).
La caduta del muro di Berlino e la dissoluzione dell’URSS indicano il contesto internazionale nel quale incominciò questa crisi.
La svolta della Bolognina e il Congresso che sancì ufficialmente lo scioglimento del PCI segnano propriamente l’avvio della crisi della Sinistra in Italia, definitivamente esplosa il 4 marzo scorso e in maniera così deflagrante e clamorosa che qualcuno ha parlato addirittura di morte/estinzione della Sinistra in Italia.
La caduta del muro di Berlino e la fine dell’URSS segnano, indubbiamente e al di là delle diverse (anche opposte) letture che se ne possono dare, una sconfitta epocale dell’ideale comunista, del quale l’immaginario collettivo di gran parte della sinistra europea (per un lungo periodo) e di quello del popolo comunista italiano (fin quasi alla fine) si era nutrito e dal quale traeva spinta, coraggio, energia, entusiasmo, motivazione.
2.I tentativi di risposta alla crisi.
La svolta della Bolognina e il Congresso del PCI del 1991 furono la presa d’atto, in limine mortis, di questa sconfitta e il tentativo estremo, quasi disperato, di limitarne i danni, di non restarne schiacciati, di viverne consapevolmente e realisticamente il dramma, provando in qualche modo a dissociarsene, distinguendo le responsabilità del gruppo dirigente del PCI da quelle del gruppo dirigente del movimento comunista internazionale, in primis da quelle del PCUS.
Gli esiti dell’una e dell’altro furono, come tutti sappiamo, una rottura, una spaccatura, una divaricazione all’interno del popolo comunista italiano.
Da un lato si ebbe la nascita del Partito Democratico della Sinistra, nel quale confluì, capeggiato dal segretario Achille Occhetto, il grosso del PCI che si scioglieva.
Dall’altro la nascita di Rifondazione Comunista, nel quale, attorno a Cossutta, il più filosovietico dei dirigenti comunisti, confluì la minoranza ortodossa, che non voleva ammainare la vecchia bandiera rossa con i simboli della falce e del martello.
Con la nascita del PDS, il grosso del vecchio PCI, la sua maggioranza, prendeva atto fino in fondo (anche se con molti mal di pancia) della sconfitta del movimento comunista e intendeva operare una vera e propria rottura con quella tradizione, inserendosi in buona sostanza nel solco di un’altra tradizione, della quale era stata per un lungo periodo avversaria, per non dire nemica: quella socialdemocratica europea.
Le parole chiave di questa operazione sono, quindi, “revisionismo” o “rinnovamento”, a seconda del punto di vista con il quale la si voglia guardare.
Rifondazione Comunista, pur accogliendo alcune importanti critiche che la svolta della Bolognina aveva avanzato al modello e all’esperienza complessiva dell’URSS, non rinnegava l’esperienza comunista in sé, né, tantomeno, l’ideale comunista, fondato sul pensiero di Marx e tradotto nella Rivoluzione leninista dell’ottobre 1917.
Le parole chiave di questa operazione sono, dunque, “fedeltà” o “nostalgia”, anche qui a seconda del punto di vista con il quale la si guardi.
A mio avviso, entrambe queste risposte avevano delle ragioni, ma entrambe allo stesso modo avevano dei torti. Entrambe in ogni caso erano inadeguate al livello della crisi che si era determinata con la caduta del muro di Berlino e con lo scioglimento dell’URSS, fatti che, oltre ad avere un’importanza storica oggettiva, avevano anche un grande, anzi enorme, valore simbolico.
3.I limiti della svolta occhettiana.
La svolta della Bolognina e lo scioglimento del PCI con la conseguente nascita del PDS erano ampiamente a mio avviso giustificati e legittimati dal venire meno della “spinta propulsiva della Rivoluzione d’Ottobre”, di cui aveva già parlato Enrico Berlinguer anni prima, esattamente nel gennaio del 1982, quindi quasi nove anni prima della svolta della Bolognina. Era , quindi, largamente giustificata e legittimata, a mio avviso, la rottura (o, quantomeno, la soluzione di continuità) con la tradizione comunista.
Ma qui si fermano, per me, le ragioni della svolta di Occhetto. Che ha avuto, infatti, due gravi punti deboli: uno di carattere teorico e uno di carattere pratico.
Il primo consistette nel ritenere che a quel punto bisognava aderire, senza sostanziali obiezioni di fondo, sic et simpliciter, alla cultura socialdemocratica. Proprio nel momento in cui questa sposava nei fatti il pensiero unico, prima liberista e poi marcatamente liberista, cosiddetto neoliberista.
Il secondo consistette nel fatto che il PDS finì per adeguarsi sempre più alle pratiche organizzative e alle logiche consociative e spartitorie degli altri partiti, smarrendo il rigore etico (la famosa “diversità”), che aveva caratterizzato il PCI per circa quattro decenni, i primi quattro decenni della storia repubblicana.
Venivano così a smarrirsi alcuni elementi e fattori che avevano per lungo tempo, storicamente, caratterizzato la sinistra italiana, europea e mondiale. Per enumerarne solo alcuni, quelli che a me sembrano i più importanti: – il suo ruolo di classe, a difesa dei ceti più deboli; – l’idea, almeno come orizzonte strategico, del superamento del modello capitalista; – la difesa intransigente del welfare; – la programmazione economica con un ruolo importante assegnato all’intervento pubblico e statale; – il radicamento sociale e organizzativo nei quartieri, nei luoghi di lavoro, nei luoghi della formazione e della riproduzione culturale; – la militanza appassionata e disinteressata.
La svolta occhettiana ha assunto, insomma, ben presto (prima con D’Alema, che successe ad Occhetto e diede vita nascita ai DS, e poi definitivamente con Veltroni, che successe a D’Alema e fece nascere il Partito Democratico) tutte le caratteristiche della svolta a destra, via via sempre più accentuata.
Infatti, in nome del presunto realismo politico, si ebbe una progressiva e graduale accettazione dello status quo e la riduzione della politica a pura amministrazione dell’esistente, in primis dei conti del bilancio pubblico, con l’attuazione acritica dei dettami della troika e delle sue politiche di “rigore”.
E, in contemporanea, la trasformazione graduale e progressiva del Partito in comitati elettorali sempre più legati alle figure di piccole leadership locali e alla grande figura del leader nazionale; con la perdita impetuosa dell’identità originaria di sinistra per addivenire ad un certo punto alla fusione coi popolari ex democristiani, avente una sbiadita immagine di centro-sinistra, molto di centro e ben poco di sinistra.
4.I limiti di Rifondazione Comunista.
L’operazione “Rifondazione Comunista” è avvenuta in direzione speculare ed opposta alla svolta occhettiana. Essa nasceva da una motivazione giusta, seria, fondata: quella di salvaguardare lo spirito originario, l’essenza dei valori e degli ideali comunisti.
Rinnovarli, anzi rifondarli, alla luce dei cambiamenti e delle trasformazioni economiche, sociali, culturali e politiche intervenute nei decenni successivi alla Rivoluzione d’Ottobre, ma non smarrirli, non dilapidarli in nome del nuovismo o peggio del pensiero unico.
In moltissimi casi questa operazione ha fatto leva su militanti assolutamente generosi e disinteressati, tanto più generosi e disinteressati perché andavano controcorrente, contro lo spirito prevalente del tempo storico che si stava attraversando.
Ma la nascita e la vita successiva di Rifondazione Comunista hanno avuto limiti altrettanto gravi, se non addirittura più gravi, della svolta occhettiana e della nascita del PDS prima, dei DS dopo e del PD infine. Provo molto sinteticamente e schematicamente a indicarne quelli che ritengo i principali.
Innanzitutto Rifondazione è stata incapace di fare i conti fino in fondo con la storia e la cultura del movimento comunista. Incapace, a mio avviso, di cogliere i limiti teorici insuperabili della sua ideologia e i problemi strutturali e niente affatto congiunturali delle sue realizzazioni storiche: in primis il rapporto, anzi l’intreccio, tra il valore e la pratica della uguaglianza e quelli della libertà.
In secondo luogo Rifondazione è stata incapace di abbandonare vecchi slogan, rituali e, forse, anche modelli organizzativi, che avrebbero richiesto un radicale aggiornamento, non per adeguarsi passivamente e conformisticamente allo “spirito dei tempi”, ma per trarre lezioni da quello che la storia (non sempre, a voler usare un eufemismo, positiva) dei partiti comunisti (non solo dell’Europa orientale) avrebbe dovuto insegnare.
5.Come uscire dalla crisi?
A mio avviso (e in questo per me aveva ragione Occhetto), dopo la caduta del muro di Berlino e lo scioglimento dell’URSS, non si trattava (e meno che mai si tratta ora) di rifondare (semplicemente aggiornandola) la cultura e la pratica comuniste.
Era necessario, invece, abbandonarle radicalmente, operare rispetto ad esse una rottura drastica. Quindi da questo punto di vista, per me, la svolta della Bolognina fu opportuna, anzi necessaria, sacrosanta.
Ma per me non si trattava di rinnegare in toto quella cultura e quelle pratiche, buttando l’acqua sporca con il bambino. Come, invece, è stato fatto.
Era necessario rinnegare ciò che non si era dimostrato valido, né sul piano teorico né sul piano pratico della tradizione socialcomunista.
Ma, allo stesso tempo, era necessario salvaguardare di quella tradizione le ispirazioni ancora valide e utilizzarle nella elaborazione e nella pratica di una cultura e una prassi politiche però radicalmente nuove.
Un cultura politica nuova, capace di operare, rispetto alla cultura politica socialcomunista, la stessa rottura, lo stesso salto quantico, che significò la cultura socialcomunista a metà Ottocento, rispetto a quella liberale nata con l’Illuminismo più o meno a metà del Settecento.
Una cultura politica nuova capace di coniugare, in un nesso inscindibile e indissolubile, la categoria dell’uguaglianza con quella della libertà, come né la Rivoluzione Francese del 1789, né la Rivoluzione Russa del 1917, né le altre successive a queste due principali, erano state in grado di fare
E una prassi politica nuova, capace di rompere con l’idea del partito novecentesco, fortemente centralizzato e piramidale, avente un’organizzazione quasi militare, a favore di un partito sociale e dalla struttura organizzativa fortemente molecolare ed orizzontale: un partito-movimento, insomma, e non più il partito-apparato.
Una prassi politica, poi, capace di misurarsi con l’idea della rivoluzione, come processo graduale e complesso e non come evento ed episodio (la “presa del Palazzo d’Inverno”, tanto per intenderci). Con pratiche politiche di nonviolenza (in questo Bertinotti aveva avuto delle intuizioni interessanti) e modelli relazionali basati sulla categoria (cristiana, ma anche illuminista) della fraternità.
Ovviamente queste ultime riflessioni, qui appena accennate, avrebbero bisogno di ulteriori approfondimenti ed elaborazioni. Ma non era questo che mi proponevo di fare in questo breve articolo, che aveva lo scopo di gettare piuttosto le basi (solo le basi) di un ragionamento, che andrebbe poi sviluppato in ben altro modo, in altre sedi e in altri momenti.
Giovanni Lamagna