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La lezione che ci viene dal 1921
In questi giorni si sta commemorando da varie parti il centenario della fondazione del Partito Comunista d’Italia, di Bordiga, Gramsci, Terracini e Togliatti, da cui è poi derivato il (nuovo) Partito Comunista Italiano, di Togliatti, Longo, Natta e Berlinguer. Una domanda è ricorsa in quasi tutti gli interventi celebrativi: chi aveva ragione in quel fatidico 21 gennaio 1921: i “riformisti” che rimasero nel Partito Socialista o i “rivoluzionari” che se ne scissero per andare a fondare il nuovo Partito?
A questa domanda sono state date ovviamente risposte diverse, alcune più favorevoli ai primi, altri più ai secondi, con varie motivazioni, più o meno articolate. La mia risposta (anche col senno del poi) è: né gli uni né gli altri; o (che non è proprio lo stesso) sia gli uni che gli altri. Cosa voglio dire con queste due affermazioni?
E’ un dato di fatto che il riformismo dei socialisti si era rivelato largamente inadeguato nella drammatica fase di grandi scontri sociali, che si era aperta dopo la fine della I guerra mondiale e aveva raggiunto il suo apice col famoso biennio rosso (1919-1920).
Infatti, i socialisti (tutte le componenti socialiste) a parole predicavano la rivoluzione. Ma nei fatti poi (almeno le due correnti principali, quella riformista e quella massimalista) la rimandavano sine die, alle calende greche; anche quando le condizioni per uno sbocco rivoluzionario sembravano oramai pienamente mature; come avvenne nel settembre del 1920 con l’occupazione di un gran numero di fabbriche.
I rivoluzionari del nuovo partito (PCdI), che invece avrebbero voluto la rivoluzione anche nei fatti, dal canto loro si illudevano che essa fosse oramai dietro l’angolo; mentre si dovettero ben presto scontrare con “il grande trionfo della reazione” (come la definì qualche anno dopo lo stesso Gramsci), al quale avevano dato un indiretto ma oggettivo contributo, dividendo il fronte antifascista più radicale e di sinistra.
Per cui dovettero rivedere le loro iniziali intenzioni rivoluzionarie e ripiegare (anche loro) prima su azioni di stampo tipicamente riformiste e poi finire addirittura nella clandestinità, quando il fascismo mise fuori legge tutti i partiti.
I riformisti e i rivoluzionari avevano entrambi torto ed entrambi (paradossalmente) ragione: la storia di questi cento anni ce lo ha dimostrato (almeno a mio avviso) con molta nettezza.
I riformisti avevano ragione sia nella teoria che nella pratica, perché nessuna società si cambia realmente, profondamente, con un singolo atto insurrezionale, come pretendevano e pretendono (ancora oggi) di fare i cosiddetti “rivoluzionari”.
Una società è, infatti, realtà estremamente complessa e articolata, per cui la si può modificare solo attraverso processi graduali, progressivi e, quindi, necessariamente lenti o quantomeno prolungati, non certo di botto, ex abrupto.
Ce lo ha insegnato efficacemente e, per quanto mi riguarda, in maniera definitiva (qui il riferimento mi appare quanto mai puntuale) proprio la rivoluzione bolscevica del 1917 in Russia, ben presto rifluita, regredita, sia nei contenuti e negli obiettivi (vedi la NEP, Nuova Politica Economica, introdotta da Lenin già nel 1921) che (soprattutto) nei metodi e nelle forme (costituzione di una forte burocrazia di partito e ricorso a feroce repressione e rigido autoritarismo).
Ma anche i rivoluzionari avevano (ed hanno) la loro parte di ragione, perché tenevano (e tengono) ben presente la necessità di una vera e propria rottura di sistema e non si accontentavano (accontentano) di un semplice addolcimento, temperamento del sistema economico-sociale dominante, quello capitalista.
La necessità quindi di avere obiettivi radicali di cambiamento nel senso dell’uguaglianza sostanziale e non del semplice e molto parziale aggiustamento dei rapporti sociali, destinati a rimanere però in buona parte immodificati.
Laddove i socialisti riformisti, col pretesto del gradualismo, avevano ed hanno sempre più rinunciato cogli anni all’idea stessa di un vero e profondo cambiamento: nei fatti, se non proprio a parole, già negli anni a cavallo tra la fine dell’800 e gli inizi del 900, anche a parole e ideologicamente negli ultimi tre decenni del 900.
Accontentandosi di riforme sociali che erano puri palliativi della condizione di vero e proprio sfruttamento (destinata a rimanere sostanzialmente tale) della classi che pure affermavano di voler emancipare. Fino a rinunciare anche alle riforme negli ultimi anni della loro parabola discendente e arrivare, infine, a sposare persino le controriforme del pensiero unico neoliberista.
Ciò che ha comportato, per la maggior parte dei sedicenti socialisti riformisti, non solo (fatto già di per sé grave) un cedimento sul piano delle finalità e degli obiettivi ideologici, per i quali erano nati alla fine dell’800, ma anche (cosa forse ancora più grave) un cedimento sul piano dei valori e dei comportamenti morali, sia individuali che collettivi.
Cosa avevano da spartire (a voler fare un commento non di elevata natura teorica ma di semplice rilevanza pratica) sedicenti socialisti riformisti alla Craxi o alla De Michelis (per fare solo due nomi), non dico coi padri fondatori di fine ‘800, quali Turati o Matteotti, ma coi dirigenti che li avevano preceduti anche di una sola generazione, quali (pure qui a voler fare solo due nomi) Nenni e Lombardi?
Per concludere, la lezione che a mio avviso esce fuori da questo importantissimo avvenimento storico (la scissione di Livorno del 1921) e ancora più dai 70 anni che gli hanno fatto seguito (nel 1991 il PCI si scioglie per diventare un partito altro: il PDS) è che una vera forza di sinistra deve (dovrebbe) essere radicale (diciamo pure rivoluzionaria) nelle finalità e negli obiettivi, ma allo stesso tempo riformista nei metodi e negli strumenti dell’agire politico. Altrimenti semplicemente non è di sinistra, perlomeno non è di vera sinistra.
Quando il PCI si è sciolto nel 1991, ha completato fino in fondo (cosa buona e giusta!) la sua parabola da partito rivoluzionario a partito riformista (come aveva profetizzato Filippo Turati nel suo famoso discorso al Congresso di Livorno), ma ha perso fino in fondo (cosa per niente buona e giusta!) anche la spinta radicale (e – perché no? – rivoluzionaria) che lo aveva fatto nascere nel 1921.
Che aveva conservato nel tempo della clandestinità e della resistenza antifascista e perfino, anche se in misura molto minore, nel primo ventennio post bellico, ma aveva – via, via poi sempre più – diluito, fino a smarrirla del tutto, nei decenni successivi, acconciandosi ad essere partito molto riformista e ben poco rivoluzionario, sempre più di governo e sempre meno di lotta.
Questa lezione dovrebbe essere, a mio avviso, la base (indispensabile) per una ripartenza, ovverossia per una ricostruzione ex novo della Sinistra. Non solo in Italia, ma anche nel resto dell’Europa e, forse, del mondo.
© Giovanni Lamagna