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Riflessioni un po’ più a freddo sulle elezioni del 3 e 4 ottobre 2021
Credo che per chi ha a cuore le sorti della democrazia (la democrazia come il migliore o il meno peggiore dei sistemi politici, la democrazia/democrazia, senza alcun bisogno di aggettivi) il dato elettorale più eclatante e importante di queste ultime elezioni amministrative sia quello dell’affluenza alle urne: ha votato meno del 50% degli aventi diritto.
E’ questo un dato che dovrebbe preoccupare tutti i sinceri democratici (sia quelli che in questa tornata elettorale hanno vinto sia quelli che hanno perso), perché una democrazia nella quale va a votare un elettore su due non dico che non è una vera democrazia, ma sicuramente non è una democrazia sana, è anzi una democrazia decisamente malata.
Il 50% di non votanti non è un dato fisiologico, ma un dato patologico.
Chi sostiene (come ha fatto ad esempio Claudio Tito stamattina su “la 7”) che in altri paesi di consolidata “democrazia” questo è (poco più, poco meno) il dato di partecipazione che si riconferma ad ogni elezione oramai da decenni è come se considerasse sano un malato solo perché sofferente di una malattia oramai cronica o solo perché è in compagnia di altri malati.
Questo premesso, se non si vuole che l’attuale crisi/malattia della democrazia italiana diventi irreversibile, insanabile (ammesso che non lo sia già diventata), occorre allora – e per prima cosa – chiedersi: 1) chi sta dietro il “partito” dei non votanti? 2) che cosa di essenziale ci dice, cosa vuole dirci, quali messaggi ci manda a dire questo “partito”, al di là delle sue indubbie articolazioni e disomogeneità?
La mia risposta a queste domande è che sicuramente nel 50% e passa di non votanti ci sono quelli che non stanno bene con la testa, i misantropi, gli asociali, gli scontenti e i depressi cronici, gli abulici per costituzione, i qualunquisti e perfino i nemici della democrazia, quelli che sognano e auspicano un regime autoritario (di destra o di “sinistra” che sia).
Ma costoro – per quanto mi consta – non superano la percentuale (tutto sommato “fisiologica”) del 20/25%.
Da chi è formato, dunque, il restante 20/25% di astensionisti? Non certo da nevrotici pazzi o da nemici della democrazia.
La mia impressione, anzi, è che sia formato da persone del tutto sane, che vorrebbero semplicemente una democrazia diversa da quella in cui viviamo, che non sentono rappresentati i loro interessi e ideali da nessuno dei partiti e degli schieramenti attualmente in campo, che si sentono degli orfani o degli apolidi della politica.
Da persone in non pochi casi mediamente colte, che vivono la loro scelta di astensione come un’altra forma di espressione del voto, una forma che segnala, certo, impotenza, rammarico, disincanto, perfino amarezza e rabbia, ma è pur sempre una forma, per quanto disperata e senza sbocchi, di partecipazione, una “partecipazione altra”.
Rispetto a questa forma di astensionismo “la politica” tutta (e qui per “politica” non intendo solo – e neanche innanzitutto – le forze politiche esistenti, i professionisti della politica – di questi ho ben poca fiducia – ma anche e forse soprattutto il mondo della cultura e quello delle associazioni e dei movimenti) dovrebbe tentare delle analisi, porsi delle domande e provare a dare loro delle risposte, anziché rifugiarsi nella tesi consolatoria che l’astensionismo è oramai un dato fisiologico (qualsiasi sia la sua entità numerica) delle moderne democrazie, a cui rassegnarsi, anzi da non considerare neanche più come un problema.
Ci si accorgerebbe in questo modo che questo elettorato passivo, che ha rinunciato ad esprimere le sue opzioni sulla scheda elettorale, fa delle domande, pone delle questioni, che sono a monte, che vengono prima dell’esame/analisi delle diverse offerte che il mercato della politica mette in campo, le trascendono e allo stesso tempo le attraversano tutte, in quanto contengono una critica che investe, chi di più e chi di meno, ognuna di esse.
Due mi sembrano le questioni politiche di fondo che oramai si trascinano da alcuni decenni e che non trovando risposte adeguate si sono con gli anni via, via sempre più incancrenite, generando la disaffezione, il disincanto e il conseguente astensionismo di cui stiamo ragionando: 1) la prima riguarda i fini, i valori, i contenuti, quindi le culture politiche; 2) la seconda riguarda i metodi e le forme.
1.Le proposte politiche oggi in campo sono:
– alcune prive di una vera, solida, articolata cultura politica; si pensi al Movimento 5 Stelle, che si è definito finora (e ancora oggi non ha sciolto questa sua ambiguità) “né di destra né di sinistra”, perché in realtà senza valori, fini, scopi, contenuti univoci, omogenei e senza ambiguità; i 5 Stelle sono cresciuti rapidissimamente come movimento di protesta, sono franati miseramente quando sono stati chiamati alla prova del governo, sia di quello centrale che di quelli locali;
– altre si organizzano attorno alla persona del leader; pensiamo a Forza Italia (Berlusconi), Italia viva (Renzi) e ad Azione (Calenda), con contenuti molto vaghi, che alcune (ad esempio, quella di Renzi) occhieggiano un po’ a Destra e un po’ a Sinistra, anche qui senza una vera cultura politica; tali proposte magari in una certa fase attirano pure gli elettori (come è avvenuto a Berlusconi e Renzi negli anni trascorsi), ma poi si sgonfiano (prima o poi, più prima che poi) con la stessa velocità con cui si erano gonfiate;
– altre ancora sono figlie di culture politiche vaghe e confuse, senza solidi radicamenti sociali (vedi il PD) o di culture politiche che guardano al 900, se non addirittura all’800.
2. la seconda questione, quella dei metodi e delle forme, riguarda, purtroppo, chi più e chi meno, tranne pochissime e assai minoritarie eccezioni, tutte le forze politiche attualmente in campo; basti guardare al modo con cui si seleziona il personale politico candidato a ricoprire cariche di rappresentanza o di governo nelle istituzioni.
Queste ultime elezioni (almeno qui a Napoli, ma non credo sia un problema solo napoletano) ce ne hanno dato una tristissima testimonianza, col loro pullulare di liste e listarelle, le più improvvisate all’ultimo momento, e una pletora di candidati, alcuni estremamente improbabili, sui quali molti comici hanno potuto sbizzarrirsi a costruire divertentissime, alcune davvero irresistibili, gag.
Rispetto a tale questione o rinasce un modo nuovo di fare politica (laddove la politica venga intesa innanzitutto come servizio alla comunità, in nome di ideali e valori alti, e non in primo luogo un modo come un altro, nel migliore dei casi, di trovare un lavoro o, nel peggiore, come una scalata verso illeciti arricchimenti) oppure il problema di riattrarre verso la partecipazione al voto gli elettori disaffezionati si dimostrerà irresolubile, una pia intenzione di sempre più poche e isolate anime belle, come il sottoscritto.
© Giovanni Lamagna