1.4. L’esaurimento delle esperienze socialdemocratiche.
Ci sarebbe, a questo punto, da chiedersi: come mai è avvenuto l’esaurimento di queste esperienze? cosa non ha funzionato (anche) nelle esperienze socialdemocratiche, così come non aveva funzionato nelle società liberali e in quelle socialcomuniste?
Quali sono le ragioni del fallimento o, per meglio dire, dell’esaurimento delle esperienze socialdemocratiche?
E’ difficile dare una risposta a questa domanda. Si può andare per tentativi. Si possono tentare varie risposte (come in una specie di brainstorming) e poi provare a fare una sintesi. E’ quello che farò qui di seguito.
1).La prima risposta è che la cultura socialdemocratica era ed è per sua natura una cultura moderata, che provava non a superare in maniera radicale le società borghesi, cioè le società fondate sul predominio della classe borghese, ma tutt’al più a limitare l’egemonia di questa classe, raggiungendo quello che è stato definito un compromesso tra il Capitale ed il Lavoro.
Compromesso sempre instabile, soggetto sempre al gioco dei rapporti di forza, che potevano mutare (e, infatti, mutavano) in continuazione nelle varie fasi del ciclo della produzione, che era e rimaneva fondamentalmente capitalista e per giunta di un capitalismo prevalentemente privato.
Rapporti di forza che, infatti, dal punto di vista della classe lavoratrice hanno vissuto di continui alti e bassi, anche durante il periodo (1945-1975) che è stato definito del “trentennio glorioso”.
“Glorioso”: un termine appropriato, ancora oggi, se pensiamo che mai come in quei 30 anni le classi lavoratrici avevano raggiunto livelli di benessere e di riconoscimento di diritti così alti.
Ma, per altri versi, termine esagerato ed eccessivamente trionfalistico, se pensiamo che la classe lavoratrice anche in quegli anni rimaneva una classe chiaramente e decisamente subalterna.
Non solo, ma le sue condizioni di (maggiore o minore) benessere dipendevano strettamente dall’andamento dei cicli di produzione capitalistici; erano quindi indissolubilmente legate alle fortune del capitale.
Per conseguenza le società socialdemocratiche restavano società fondamentalmente liberaldemocratiche, con tutti i limiti e le contraddizioni strutturali di queste società, appena un po’ limitate, contenute.
Società caratterizzate non solo dalle forti disuguaglianze sociali, ma anche dalla tendenza al consumismo e alla passivizzazione e massificazione culturali, tipiche delle società capitalistiche.
Limiti e contraddizioni che oltretutto, anziché attenuarsi col tempo, si sono vieppiù accentuate. Per due ragioni che potremmo definire speculari.
Da un lato le socialdemocrazie hanno rinunciato ad un certo punto e definitivamente (emblematico in questo senso il Congresso della SPD tenutosi a Bad Godsberg in Germania nel 1959) al sogno della perfetta uguaglianza, che pure era, invece, nel programma del socialismo originario (quello di fine ‘800/inizi ‘900), per quanto riformista esso fosse; si sono assestate dunque nell’ordinaria amministrazione, nella pura difesa dell’esistente.
Da un altro lato verso la metà degli anni ’70 è esplosa la globalizzazione, che ha modificato radicalmente e in maniera rapida e violenta, sotto il peso di condizioni oggettive e strutturali, a favore del Capitale e a sfavore del lavoro i rapporti di forza che erano stati faticosamente raggiunti nel trentennio precedente.
Questa seconda ragione è stata ulteriormente rafforzata dal crollo, alla fine degli anni ’80, dei regimi comunisti dell’Est europeo, che nel conflitto capitale/lavoro in atto nelle società a guida socialdemocratica avevano rappresentato fino ad allora un oggettivo contrappeso a favore del lavoro nel conflitto con il capitale.
A questo punto si è determinato un circolo vizioso: più il Capitale attaccava e più le socialdemocrazie arretravano, in una politica puramente difensiva; fino a rinnegare (nei fatti, ma a volte anche nelle dichiarazioni esplicite e di programma) i capisaldi stessi della cultura socialdemocratica. Che negli ultimi anni è approdata nei fatti e in buona sostanza al “pensiero unico” neoliberista.
La sconfitta dell’ipotesi socialdemocratica dimostra, forse una volta e per sempre, che la subalternità culturale all’ideologia liberale (per quanto giustificata dal realismo politico) non giova né alla cultura socialista né a quella liberale.
Alla lunga, infatti, svuota e rende inconsistente la prima e rende illiberale (o, come si dice oggi, liberista) la seconda.
2) Un’altra risposta alla domanda che ci stiamo ponendo è che la cultura socialdemocratica era pienamente figlia della rivoluzione industriale, che, provocata dagli investimenti del Capitale produttivo, aveva attratto grandi masse di contadini nelle fabbriche insediate nelle città e aveva dato origine quindi al proletariato operaio.
E si fondava perciò, come tutte le culture politiche figlie della rivoluzione industriale, su una concezione dello sviluppo illimitato, del tutto inconsapevole (almeno all’inizio) dei danni che questo avrebbe apportato e apportava all’ambiente e alla natura.
Negli ultimi decenni, di fronte agli evidenti disastri ecologici, questa idea dello sviluppo illimitato è stata messa sempre più in discussione. Di conseguenza sono entrate in crisi anche le culture politiche che avevano sposato questa idea. Tra queste culture quella socialdemocratica, della cui crisi stiamo appunto parlando.
3) Un’altra motivazione della crisi della cultura socialdemocratica è in qualche modo collegata alla precedente. Riguarda l’enfasi acritica con cui da sempre e (quasi) unanimemente si valuta l’indicatore PIL (Prodotto Interno Lordo), che indicherebbe da solo (secondo la concezione del pensiero economico dominante) il livello di civiltà e di benessere di una società.
La storia, soprattutto di questi ultimi decenni, si è incaricata di dimostrare che questa identificazione era ed è del tutto infondata. Ma ha anche messo a nudo la subalternità culturale delle socialdemocrazie (che avevano condiviso questa identificazione) nei confronti della culturale liberale (anzi liberista) dominante.
4) Infine, è da considerare il modello organizzativo che si sono dati i partiti che si rifacevano alla cultura socialdemocratica. Un modello fortemente basato sul ruolo dei professionisti della politica. E, quindi, fortemente piramidale.
Che riproduceva pertanto per molti aspetti i tratti (fortemente stratificati) della società capitalistica e, soprattutto, dell’impresa capitalistica, che di quella società era (ed è) l’asse portante.
Anche qui è da registrare un elemento di subalternità culturale delle socialdemocrazie nei confronti di quello che doveva essere l’avversario di classe.
Questi quattro fattori, messi insieme, spiegano abbastanza bene, a mio avviso, la crisi in cui sono progressivamente scivolate, a partire dalla fine degli anni ’70 e con gli inizi degli anni ’80 del secolo scorso, le socialdemocrazie europee.
La crisi (a mio avviso irreversibile) delle socialdemocrazie europee, che ha rappresentato forse il punto più avanzato sia del pensiero che dell’azione politica delle sinistre in Europa, ripropone dunque il problema da cui siamo partiti all’inizio: quello di un ripensamento radicale delle culture politiche che hanno rappresentato la Sinistra negli ultimi due secoli (da quando cioè la nozione stessa di “Sinistra” si è affacciata all’orizzonte della storia).
Anzi, in ipotesi, la riformulazione di una nuova cultura politica di Sinistra, ammesso che questo termine regga ancora all’urto delle analisi e delle verifiche necessarie da fare.
Giovanni Lamagna
(continua, 4)