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Paure e razzismo
Su “la Repubblica” del 5 u.s. Massimo Recalcati ha scritto delle cose di grande acume ed equilibrio, da grande psicoanalista qual è, a proposito della paure insorte (anche in Italia) in seguito alla diffusione del coronavirus.
“In Massa e potere Elias Canetti esordisce riflettendo sull’atavico timore dell’uomo di essere toccato dall’ignoto. Dovunque l’essere umano evita di essere toccato da ciò che gli appare estraneo. Questo timore del contatto può raggiungere il vertice del panico quando si avverte l’impossibilità della presa di distanza o della fuga…
… L’epidemia è una figura che andrebbe iscritta di diritto nella fenomenologia della paura umana per il contatto. Non a caso nella città cinese colpita dal virus il primo appello delle autorità è stato quello di evitare i luoghi pubblici: chiudersi nelle proprie case, sbarrare l’accesso dell’estraneo al nostro luogo più privato, è un altro gesto fondamentale correlato alla paura del contatto. Solo nella nostra casa ci sentiamo al sicuro. La chiusura nella propria casa rovescia la nostra esposizione al pericolo del contatto con l’estraneo.
Per Freud si tratta di una pulsione primaria dell’essere umano: erigere barriere protettive di fronte al carattere estraneo e ostile del mondo – fonte di stimolazioni perturbanti – è un moto fondamentale della vita che si difende dal carattere ingovernabile della vita stessa.
Nel tempo più originario della vita psichica l’estraneo e l’ostile coincidono. Il terrore del contatto coincide con il terrore del contagio. In primo piano emerge una angoscia primaria di intrusione. Saranno i nostri confini sufficienti a garantire la protezione della nostra vita di fronte alla minaccia dell’estraneo?
Il rischio dell’epidemia e del contagio riflette questa angoscia primaria di intrusione; il virus, da questo punto di vista, è l’incarnazione più temibile dello straniero perché non ha volto, non è visibile, non ha corpo. Esso può irrompere nella nostra casa, può perforare i confini della nostra esistenza, può gettare la nostra vita nella morte. La sua diffusione è tanto più minacciosa quanto più è difficile registrarla obbiettivamente.
Non a caso l’attuale mobilitazione del discorso medico e di quello politico che amministra i flussi dei corpi nel nostro territorio è finalizzata a rendere possibile l’identificazione del virus e dei suoi portatori umani. Nessuna figura più dell’epidemia mette in luce questa spinta primaria dell’umano all’evitamento del contatto e alla chiusura.
Tocchiamo qui il limite della classica definizione aristotelica dell’uomo come essere sociale. La pulsione non è solo apertura vitale verso la vita ma anche tendenza claustrale, tensione securitaria che rigetta l’esposizione della vita. Non a caso i regimi dittatoriali hanno sempre utilizzato metafore mediche per definire il nemico come virus, infezione, batterio. In primis quello nazista…
… In realtà ogni epidemia esalta il carattere primario della pulsione securitaria. Questa pulsione difende la vita contro la minaccia della morte, contro il pericolo dell’intrusione della morte nella vita. Freud la definisce non a caso come una pulsione di autoconservazione. Il suo corrispettivo politico è l’inclinazione paranoide che identifica lo straniero come una minaccia all’integrità del corpo della nazione.
Non si tratta di analfabetismo politico, né di barbarie incivile. Piuttosto di una mobilitazione delle angosce più profonde: essere contagiati, corrosi, uccisi, violentati, aggrediti dallo straniero.
Non bisogna schernire questa paura come semplice frutto dell’ignoranza. In ciascun essere umano giace una inclinazione xenofoba che l’attualità del coronavirus fatalmente riattiva.
Non a caso in questi giorni non è l’africano ma il cinese ad essere il bersaglio di sussulti razzisti. In questa congiuntura è il corpo del cinese a incarnare il flagello mortale del virus.
La necessaria battaglia della scienza e della politica contro la diffusione della malattia e della morte non può trattenere gli esseri umani dalla spinta securitaria a identificare in una razza la causa del male.
E questa spinta viene facilmente alimentata da un tempo come il nostro che ha fatto del muro una tentazione collettiva.”
Perché questo articolo contiene, a mio modo di vedere, un’analisi acuta ed equilibrata sia del tema della paura sia del tema del razzismo, che della paura è (in genere e in fondo) il figlio naturale?
Perché di queste due tematiche dà una lettura/interpretazione laica, psicologica (anzi psicoanalitica) e non ideologica o moralistica.
Infatti, richiamandosi a Freud, afferma che quella di “erigere barriere protettive di fronte al carattere estraneo e ostile del mondo” è “una pulsione primaria dell’essere umano”, quindi qualcosa di naturale, cioè di connaturato all’essere umano e, per questo, niente affatto (in sé) aberrante.
Come, invece, a volte e troppo semplicisticamente, si tende a ritenere, emettendo (soprattutto da parte di una certa sinistra, che si erge a “pierina” prima della classe) sentenze giudicanti e, appunto, moralistiche, fino al limite del disprezzo e dell’irrisione.
E’ una lettura, quindi, quella che dà Recalcati, che cerca di andare al cuore del “problema-paura”, che non lo nega, anzi lo guarda in faccia e, guardandolo in faccia, non lo giudica, ma cerca di capire cosa esso nasconda. Ed è questo (anche a mio avviso, se mi posso consentire) il modo migliore di affrontare il problema che spesso ne consegue: quello del razzismo.
Perché il razzismo (più o meno latente e strisciante, più o meno manifesto ed eclatante) non lo si affronta, negando le questioni che lo provocano (che sono riassumibili nella espressione “paura del diverso e dell’ignoto”) o chiudendo gli occhi di fronte ad esse. Come (ripeto) tende a fare una certa sinistra moralista e riduzionista dei problemi.
Ma riconoscendo (come naturali e, perciò, non in sé aberranti) le paure che provocano il razzismo e provando ad affrontarle e risolvere. Cosa che non si fa con le semplici prediche e, meno che mai, con scelte imposte e non condivise dalla maggioranza della popolazione. Quand’anche tali scelte fossero dettate da sacrosanti principi di umanità e di solidarietà.
In altre parole e volendo spostare la riflessione dall’analisi prevalentemente psicologica a quella socio-politica, sbaglia sia chi (in genere la Destra) fomenta le paure del diverso e dell’ignoto sia chi le ignora o ne prescinde del tutto o in parte (in genere la Sinistra).
Sbaglia (anzi, diciamola tutta, è aberrante – in questo caso sì – sul piano dell’etica politica) la Destra, perché le paure non vanno fomentate per trarne un tornaconto politico (come da qualche anno stanno facendo in modo particolare la Lega e Fratelli d’Italia), ma vanno analizzate, affrontate e superate con un’azione pedagogico-culturale, prima che politica.
Ma sbaglia ugualmente (in questo caso non sul piano dell’etica, ma su quello dell’intelligenza politica) la Sinistra, quando tende a ignorare o, quantomeno, sottovalutare (se non addirittura schernire) le paure diffuse e proporre soluzioni che non tengono conto (o tengono conto in maniera del tutto insufficiente e inadeguata) di queste paure. In questo modo regalando all’avversario un facile consenso politico.
Di questi che io chiamo “opposti estremismi” abbiamo avuto un ennesimo esempio – e non se ne sentiva certo il bisogno – in occasione della richiesta da parte dei governatori leghisti di alcune regioni del Nord di impedire l’ingresso a scuola dei bambini cinesi che fossero da poco rientrati dalla loro madre patria.
Probabilmente – anche io su questo ho pochi dubbi – tali governatori hanno posto la questione non (solo) per affrontare e risolvere (com’era nei loro compiti istituzionali) una giusta e naturale preoccupazione diffusa, ma per fomentarla, se non addirittura provocarla. Hanno agito quasi sicuramente innanzitutto per fini di bassa e volgare propaganda.
Accusarli però di razzismo o di pseudo-razzismo (come hanno fatto alcuni esponenti di sinistra o una certa stampa) è altrettanto esagerato; in quanto in fondo la loro richiesta era in sé legittima, come ha confermato l’illustre epidemiologo Roberto Burioni: sicuramente era tra i provvedimenti già previsti dal Ministero della Sanità e attuati dagli organi competenti.
Si può consentire, infatti, ad un bambino arrivato da pochi giorni dalla Cina, magari proprio dalla zona dove è scoppiata l’epidemia, un bambino magari infetto dal virus, di ritornare tranquillamente a scuola, senza verificare prima il suo stato di salute?
Quando, anche dopo una normale influenza, tutti i bambini che frequentano le nostre scuole, prima di riprendere le lezioni, italiani o non che siano, debbono presentare un certificato medico di avvenuta guarigione?
Del resto come definire il provvedimento preso dalla maggior parte dei governi del mondo di bloccare tutti i voli provenienti dalla Cina? E’ stato un atto di razzismo o una naturale e persino ovvia misura di sicurezza, attuata del resto non solo dal governo italiano ma dalla gran parte dei governi del mondo?
Cosa ha significato poi il fatto che l’aereo mandato in Cina dal nostro governo a prelevare i 67 italiani residenti nella regione dove è scoppiata l’epidemia ne ha lasciato uno di essi a terra, perché febbricitante e, quindi, sospetto di aver contratto il virus? E’ stato anche questo un atto di razzismo?
Come si vede, molte volte, anche sulle questioni più semplici e banali, come questa da me appena ricordata, si assumono posizioni ideologiche e pregiudiziali, laddove occorrerebbero, invece, il ricorso alla ragione e un minimo di equilibrio e moderazione, senza farsi trascinare in polemiche sterili ed inutili, per il puro e unico intento di colpire e danneggiare l’avversario politico o trarne qualche vantaggio presso l’opinione pubblica.
Giovanni Lamagna