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Su Matteo Renzi
Dico subito che Renzi non mi è mai piaciuto.
Antropologicamente e culturalmente, quindi come uomo prima che come politico.
Che cosa intendo con questo?
Non mi è mai piaciuto il suo fare guascone, di chi si sente narcisisticamente il meglio di tutti, di chi pensa di non dover dispiacere a nessuno perché sarebbe stato baciato da madre natura da innate e incommensurabili doti di simpatia, di chi ritiene di essere uno nato per comandare, per fare il leader e di non poter quindi mai e poi mai abbassarsi a fare il comprimario all’interno di una compagine politica.
Segni inconfondibili di questa sua natura profonda, prima che le dichiarazioni, i gesti e le azioni politiche, sono la sua stessa prossemica e la sua fisiognomica: lo sguardo altezzoso e sdegnoso di chi guarda sempre gli altri dall’alto in basso, il portamento sbruffone, di chi è pieno di sé, l’andatura quasi guappesca di chi vuole dare l’idea di non temere niente e nessuno e, soprattutto, di non avere mai dubbi e incertezze.
In modo particolare lo denotano il suo parlare o, meglio, la sua parlantina veloce, che sembra non avere mai tempi corrispondenti e adeguati di riflessione, come se le sue parole quasi ne precedessero il pensiero, che ricorda quella di coloro che ti bussano alla porta per venderti un prodotto e non ti mollano fino a quando non te lo sei comprato; infine le sue battute rapide, caustiche, sferzanti, spesso sprezzanti e aggressive.
Già questo profilo psicosomatico che ho provato a farne (mi auguro obiettivo o, quantomeno, non troppo lontano dalla realtà), me lo ha reso da sempre poco simpatico, anzi, per dirla tutta e fino in fondo, decisamente antipatico.
In altre parole, a prescindere dalle sue convinzioni e proposte politiche, Matteo Renzi non è una di quelle persone nelle quali io mi riconosco; anzi, esattamente al contrario, è una di quelle persone nelle quali non mi riconosco per niente!
Il secondo motivo per cui quest’uomo politico non mi è mai piaciuto è di ordine etico-culturale. E questa forma di antipatia si è ulteriormente confermata in me qualche sera fa, nel corso di un’intervista dal Nostro concessa a Lilli Gruber durante la trasmissione (“Otto e mezzo”) che la giornalista conduce ogni sera su “la 7”.
Di fronte alla domanda della Gruber, che sostanzialmente gli chiedeva quale giudizio etico desse di alcuni suoi comportamenti politici (in primis le conferenze da lui tenute, dietro, tra l’altro, lauti compensi, in Arabia Saudita, Stato notoriamente non liberale, sessuofobico e nel quale la condizione della donna è ancora ferma a livelli quasi medioevali) egli (a conferma non solo della sua approssimazione culturale, ma soprattutto della sua spregiudicatezza morale) ha risolutamente citato Benedetto Croce, per dire che un uomo politico si giudica esclusivamente dai risultati che riesce a produrre.
Come a dire, in altre e più povere parole, che la politica va separata dalla morale e che, in vista di determinati risultati, i mezzi non vanno giudicati coi normali criteri dell’etica, ma esclusivamente in base alla loro efficienza ed efficacia.
Un modo di pensare la politica che ha indubbiamente una lunga tradizione nel nostro Paese (e non solo nel nostro), a cominciare da Machiavelli per finire a Benedetto Croce, ma, soprattutto, moltissimi proseliti ed attuatori; a dire il vero, anche nella sinistra estrema.
In questi ultimi 30 anni, Craxi e Berlusconi ne sono stati i più noti e illustri interpreti; ma già da qualche annetto (nonostante o forse proprio grazie alla sua giovanissima età) Matteo Renzi si è candidato ad essere il loro più fedele e degno erede.
Ora io sarò pure antiquato, ma mi sento lontanissimo da questo modo di concepire e di vivere la politica e, quindi, anche per questo secondo e fondamentale motivo, mi sento lontanissimo da un uomo come Matteo Renzi; anzi me ne sento decisamente avversario.
La terza ragione, per cui quest’uomo non mi piace per nulla, anzi lo ritengo un vero e proprio avversario, attiene alla sua cultura (di cui in parte ho già fatto cenno) e alle sue concrete opzioni politiche, che mi sembrano rientrare pienamente nell’oramai ben noto filone neoliberista.
Che cosa intendo con il termine “neoliberista”? Un pensiero politico che in economia considera sovrano assoluto il mercato e lo Stato un semplice arbitro, del tutto neutrale, tra le forze in campo.
Uno “Stato minimo” quindi, che, di fronte alle guerre che si fanno i soggetti economici agenti sul mercato, si fa i fatti i suoi, si limita ad assistere alla contesa e a garantire che vinca il più forte; in base all’idea (in fondo, assiomatica e tutta da dimostrare) che la libera concorrenza, anche la più feroce e sfrenata, garantisce il migliore sviluppo possibile.
Una società dove l’arricchimento individuale, senza freni e senza controlli, garantirà – in base ad un altro assioma, quello della teoria del trickle-down (in italiano: “gocciolamento dall’alto verso il basso”) – il maggiore benessere possibile dell’intera società, comprese la “middle class” e le fasce di popolazione più povere e disagiate.
Una società, dunque, nella quale il lavoro non può essere considerato un diritto (come recita invece la nostra Costituzione), ma deve essere visto come una merce al pari delle altre, che va posta sul mercato e venduta (dall’imprese) o acquistata (dai prestatori d’opera) alle pure condizioni della domanda e dell’offerta.
Il jobs act, introdotto (guarda caso!) da Renzi, quando era capo del governo (forse la sua misura più significativa ed emblematica), questo ha significato: l’introduzione di una serie di norme che volevano flessibilizzare il mercato del lavoro, favorendo al massimo le imprese che assumevano, purché assumessero, non importa se con contratti capestro.
Contratti in larga prevalenza a tempo determinato, con orari settimanali estremamente elastici, con salari del tutto sganciati dai minimi sindacali, tagliati esclusivamente sugli interessi delle singole aziende o addirittura contratti individuali; in altre parole col superamento del concetto stesso del contratto nazionale di categoria.
Speculare (e non a caso) a questo modo di concepire l’economia, l’ostilità feroce a qualsiasi misura seria e strutturale di contrasto alla povertà, come – ad esempio – il reddito di cittadinanza, considerato un disincentivo alla ricerca di un lavoro e per converso addirittura un incentivo al parassitismo e al “poltronismo”; proprio qualche giorno fa Renzi lo ha definito, addirittura e senza mezzi termini, “reddito di criminalità”.
Sul piano politico-istituzionale, coerentemente con la sua visione della società, Renzi si è sempre caratterizzato (ed è questo il secondo elemento più significativo della sua azione di governo) per l’obiettivo di tendere a semplificare il più possibile i meccanismi decisionali, aumentando i poteri del governo centrale e diminuendo specularmente quelli del Parlamento: a questo sostanzialmente miravano le riforme istituzionali da lui proposte nel 2016 e sonoramente bocciate da un referendum popolare sul tema svoltosi nello stesso anno.
Alle quali si sarebbe dovuto accompagnare, successivamente e secondo le sue intenzioni, una legge elettorale fortemente maggioritaria, che avrebbe potuto premiare, garantendole il 50%+1 della rappresentanza parlamentare, anche una lista o una coalizione che avesse ottenuto solo il 25% dei consensi popolari (almeno in linea teorica e potenziale), in barba allo spirito e alla forma stessa della nostra Costituzione, che definisce il voto di ogni cittadino “uguale”, oltre che personale, libero e segreto.
Da qualche anno, infine, da quando è uscito dal PD ed ha fondato un nuovo (improbabile) partito, Italia Viva, Renzi si è collocato metaforicamente al centro dello schieramento politico, definendosi né di Sinistra né di Destra, da lui ritenute sdegnosamente categorie politiche oramai superate; guarda un po’, proprio come dicevano di sé i 5 Stelle, suoi nemici del cuore.
Con l’evidente obiettivo (in mancanza di una chiara e inequivoca visione politica, su cui raccogliere consensi) di porsi come ago della bilancia nello scontro tra i due poli principali, quello di centrosinistra e quello di centrodestra, e di lucrare quindi (diciamo pure parassitariamente) un po’ di là e un po’ di qua.
Insomma, Renzi in questi anni (per fortuna non lunghissimi: ben presto è stato privato del grande potere, di cui, per tutta una serie di circostanze a lui molto favorevoli, era stato investito), si è mosso sulla stessa strada che prima di lui avevano tracciato e percorso Craxi e Berlusconi.
Si è capito allora perché questo personaggetto non mi va proprio giù?
© Giovanni Lamagna