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Alcune riflessioni e qualche domanda ai tempi del corona virus: quasi un diario (8)
“Andrà tutto bene!” e “Niente sarà più come prima!”.
Due delle frasi (qualcuno le ha definite “hashtag”) che abbiamo sentito più spesso in queste settimane di pandemia sono: “andrà tutto bene” e “niente potrà tornare come prima”.
Sulla prima mi sono già soffermato in precedenti riflessioni e l’ho definita semplicemente “stupida”.
Non c’è, infatti, alcun destino e meno che mai pronunciamento divino che ha già stabilito: “andrà tutto bene!”.
In primo luogo perché la natura segue percorsi almeno in parte imprevedibili. Come anche lo scoppio di quest’ultima pandemia ci ha ricordato ancora una volta.
In secondo luogo perché l’uomo ha indubbiamente la possibilità e la capacità di porre rimedio alle calamità naturali, ma queste possibilità e capacità non sono illimitate.
Potrebbe anche darsi, quindi, che questa volta sarà la natura a sconfiggere noi e non il contrario. Come hanno dimostrato ad abundantiam altri precedenti della Storia.
Infine, non sta scritto da nessuna parte che “andrà tutto bene”, a prescindere da come ci comporteremo noi umani e dalle scelte che faremo.
Andrà tutto bene (forse; ma non è per niente scontato) solo se noi umani faremo determinate scelte e se ci comporteremo in un determinato modo.
E qui vengo al secondo “hashtag”: “niente potrà tornare come prima!”.
Anche questa francamente mi sembra un’affermazione banale. Meno stupida della prima, ma tutto sommato poco meno superficiale della prima. Se non altro per la sua vaghezza e imprecisione.
Cosa vuol dire infatti nella sua formulazione letterale? O, meglio, cosa può voler dire?
Può voler dire che la crisi che stiamo attraversando è così grave che, una volta superata (se e quando sarà superata), la situazione con tutta evidenza non potrà più tornare ad essere quella ante quam.
Se vuole dire questo, allora l’hashtag è perlomeno banale: in quanto ciò che essa prevede è del tutto ovvio e scontato.
Ma l’hashtag può anche voler dire che non si potrà tornare alla situazione precedente, perché la crisi che siamo stati costretti ad affrontare ci ha dimostrato in maniera solare che molte delle nostre scelte e molti dei nostri comportamenti, individuali e collettive/i, erano del tutto sbagliate/i, tanto da essere (molto probabilmente) all’origine, la causa stessa, della crisi.
In questo caso l’affermazione risulta già meno banale, ma il verbo in essa contenuta è però inappropriato. Non il “potrà” andrebbe usato, ma il “dovrà”.
Infatti, non è scontato che i cambiamenti pur necessari saranno avviati. E’ solo evidente, è solare che essi andrebbero avviati e portati a compimento.
Ma noi sappiamo bene che nella storia e nella stessa vita individuale di ognuno di noi non tutto ciò che sarebbe utile, anzi necessario, poi viene fatto. Non c’è nessun automatismo tra le due cose.
Per cui io correggerei l’hashtag tanto in uso in questi giorni, “niente potrà tornare come prima”, con il seguente “niente dovrà (o. meglio, dovrebbe) tornare come prima!”.
Cosa non DOVRA’ tornare come prima?
Chiediamoci allora: cosa non dovrà (o, meglio, non dovrebbe) tornare come prima? Su questo vorrei soffermare la mia riflessione odierna. Farò pertanto un elenco piuttosto schematico di cose che a mio avviso dovrebbero cambiare, non in ordine di importanza, ma in forma casuale, così come mi vengono alla mente in maniera del tutto libera e spontanea.
1.Dovrà cambiare la spesa e l’organizzazione della sanità pubblica.
Innanzitutto dovrà essere invertita la tendenza invalsa in questi ultimi decenni a tagliare la spesa per la sanità pubblica. Bisognerà pertanto aumentare progressivamente gli investimenti in questo settore.
In secondo luogo bisognerà incentivare la sanità pubblica e disincentivare quella privata, invertendo radicalmente una tendenza invalsa in questi ultimi decenni.
In terzo luogo bisognerà potenziare i servizi sanitari su base territoriale.
Rafforzare quindi il ruolo dei medici di base, dotandoli di attrezzature e competenze di medicina preventiva (dieta, esercizio fisico, controlli sanitari…) e di primo intervento (analisi, radiografie, piccole TAC…) : un po’ come mi risulta avviene in Germania, che non a caso è risultato il paese in grado di reagire meglio alla crisi pandemica in corso.
Decentrare al massimo sui territori ambulatori e presidi ospedalieri, specie quelli di pronto soccorso: insomma tutto il contrario di quello che è stato fatto negli ultimi decenni.
Limitare i ricoveri ospedalieri alle patologie più gravi, magari moltiplicando gli ospedali specializzati, in modo da concentrare le competenze specialistiche e favorire la ricerca/sperimentazione relativa alle diverse patologie.
Articolare sui territori le Residenze Sanitarie Assistenziali (RSA), al fine di ospitare, per un periodo variabile da poche settimane al tempo indeterminato, un numero limitato di persone non autosufficienti, che non possono essere assistite in casa e che necessitano di specifiche cure mediche di più specialisti e di una articolata assistenza sanitaria.
Infine, garantire – con forme di sussidi inversamente proporzionali al loro reddito – l’assistenza domiciliare agli anziani, che non presentino patologie richiedenti particolari cure sanitarie, in modo da limitare al minimo le situazioni di ricovero in case di riposo, che comportano sempre un doloroso, lacerante (anche se a volte – bisogna pur dirlo – senza alternative) sradicamento dell’anziano dall’ambiente a lui familiare.
- Ripensare modalità e obiettivi della spesa pubblica.
Innanzitutto andrà ripreso il concetto, in auge negli anni ’60 e poi caduto progressivamente in disuso soprattutto a partire dagli anni ’90, della “programmazione economica” da parte del Governo.
Alla quale programmazione io aggiungerei altri due aggettivi: “sociale” e “culturale”.
Dovranno, quindi, essere stabilite priorità di intervento, con progetti e finanziamenti coerenti e conseguenti.
In grado di incentivare l’iniziativa privata, ma anche di prevedere l’iniziativa statale, laddove quella privata fosse carente o del tutto assente (come in molti casi è).
A mio avviso l’ordine delle priorità su cui dovrebbe avvenire tale programmazione è il seguente:
-lotta agli sprechi e alle diseconomie della spesa pubblica;
– lotta vera, severa alla elusione e alla evasione fiscale;
– taglio (anche drastico) alle spese che non rientrino nelle priorità;
– riconversione ecologica della struttura produttiva nazionale e delle sue articolazioni territoriali, in primo luogo per ridurre i tassi di inquinamento dell’ambiente, che qualcuno – tra l’altro – considera uno dei fattori aggravanti dell’epidemia in corso (che, forse, non a caso ha visto i maggiori focolai di diffusione nelle regioni più inquinate del Paese);
– risanamento idrogeologico del territorio; in primis per limitare i disastri naturali e antropici che hanno ferito troppo spesso in modo gravissimo il nostro Paese; ma anche per rendere più belle e produttive le nostre terre e più ridenti e accoglienti i nostri borghi, specie quelli più degradati, come quelli del Sud;
– incremento della spesa per la sanità pubblica, con gli interventi già illustrati nel primo punto di questa mia riflessione;
— ripensamento radicale del sistema dell’educazione infantile, dell’istruzione primaria e secondaria nei suoi vari gradi, della formazione in generale, in modo particolare di quella universitaria;
– nuove forme di reclutamento, riqualificazione e aggiornamento del personale addetto alla formazione ai suoi veri livelli;
– reclutamento di nuovo personale educativo, docente e ausiliario;
– messa in sicurezza e riqualificazione dell’edilizia scolastica, con una sempre maggiore articolazione del servizio sui territori;
– drastica riduzione del numero degli alunni e studenti per classi (nelle scuole) e per corsi formativi (in primis ovviamente nelle università);
– creazione di luoghi di istruzione e formazione permanenti;
– forte aumento delle spese per favorire la ricerca scientifica nei suoi vari settori;
– forte aumento della spesa per manutenere e tutelare il nostro patrimonio artistico e museale;
– significativi incentivi al turismo, possibilmente di qualità, in modo particolare quello interessato alla fruizione dei beni culturali, di quelli paesaggistici, di quelli termali, del clima particolarmente favorevole per gran parte dell’anno di cui gode il nostro Paese;
– speculare (agli aumenti di spesa fin qui previsti) drastica riduzione di alcune spese pubbliche oggi particolarmente onerose, che non rientrino come prioritarie in questo quadro di programmazione; valga un solo esempio per tutte: quello delle spese militari.
- Sono necessari cambiamenti profondi dei nostri paradigmi culturali
Gli interventi di cui sopra, però, risulteranno del tutto impraticabili, un puro libro dei sogni, se l’esito della crisi in corso non sarà quello di un ribaltamento radicale dei paradigmi culturali fino a ieri prevalenti.
Anche qui vorrei provare a fare delle esemplificazioni, per quanto molto sintetiche.
Il primo paradigma da cambiare (quello più importante di tutti, perché li comprende in un certo senso tutti) riguarda il rapporto salute/produzione, che potremmo definire anche in altri termini come il rapporto benessere/beni.
Bisogna introiettare ed affermare con convinzione il concetto che la “salute delle persone”, salute in senso lato, come benessere psicofisico, è un valore più importante della “produzione delle cose”; ovviamente molto più importante del “profitto (di pochi produttori)”.
Questo cambiamento può sembrare scontato dopo questa crisi; anzi qualcuno può arrivare addirittura a ritenere che la salute, come bene supremo e prioritario su tutti gli altri, valesse già prima della crisi.
Io, invece, non do affatto per scontato questo cambiamento; visto il dibattito che si è aperto proprio in questi giorni ed è diventato accesissimo, a proposito del cosiddetto ritorno alla “normalità” e dell’apertura della “fase 2”.
In questo dibattito è del tutto evidente, nelle posizioni di molti, che il valore “produzione” viene prima di quello “salute”. Esattamente come lo era prima della crisi Covid 19. Segno che per alcuni (molti?) nulla è cambiato.
Qui, intendiamoci, quando parlo di salute, non parlo solo e, per certi aspetti neanche soprattutto, della salute fisica; parlo della salute in senso olistico, fisica e psichica allo stesso tempo; e, in qualche misura, prima psichica e poi anche fisica. Insomma del “bene-essere”, come dicevo prima.
Infatti, sarà impossibile allo stadio in cui siamo arrivati (e qui non mi riferisco solo all’Italia, ma penso all’intero pianeta) salvaguardare la nostra salute fisica e, soprattutto, quella dei nostri figli e nipoti, se non daremo la giusta importanza e priorità alla nostra salute psichica, spirituale.
A questo punto si tratterà di intendersi su cosa intendiamo per “salute psicospirituale” e, visto che ci troviamo e visto che i due concetti sono correlati, cosa intendiamo per “normalità”.
La salute psicospirituale è cosa ben diversa dal benessere puramente economico e dall’utilizzo dei beni di consumo, come invece la intendono oggi molti, anzi i più. Certo non può prescindere da un minimo di benessere “anche” economico, ma non si esaurisce nel “solo” benessere economico.
La salute psichica si realizza, si afferma, nella misura in cui, una volta garantita e assicuratasi la base economica necessaria per una vita dignitosa, la persona si dedica (perché ne ha la base materiale) al perseguimento dei beni di natura spirituale; in primis quelli culturali, poi quelli relazionali e poi quelli della meditazione/contemplazione.
Da questo punto di vista la vita che gli uomini delle società industriali e postindustriali contemporanee conducono (oramai già da un bel po’ di decenni) non può certo essere definita “normale” in senso assiologico.
Lo è dal punto di vista statistico, nel senso che è la vita della stragrande maggioranza delle persone, ma non lo è certo dal punto di vista di quello che sarebbe realmente il bene per le persone.
Per conseguenza il ritorno alla normalità, di cui tanto si parla, se è inteso come un semplice ritorno alla situazione di prima, non è affatto un obiettivo da desiderare, se ci poniamo dal punto di vista del cambiamento culturale necessario, per non ritrovarci a breve in situazioni simili (se non peggiori) a quelle che stiamo in questo momento vivendo.
Il cosiddetto “ritorno alla normalità” sarebbe semplicemente il ritorno alle vecchie abitudini e logiche, che hanno prodotto, direttamente o indirettamente, il disastro, nel quale siamo tutti noi immersi da più di quattro mesi a questa parte. Non mi pare che sarebbe un bel “ritorno alla normalità”.
- Alcuni/altri paradigmi culturali da modificare per realizzare un nuovo rapporto salute/produzione.
Tre in modo particolare sarebbero, a mio avviso, i paradigmi culturali da modificare per realizzare il nuovo rapporto salute/produzione di cui parlavo prima.
Ce ne sono sicuramente molti altri, ma in questo momento a me ne vengono in mente soprattutto tre: il primo è il rapporto con il tempo; il secondo è il rapporto con il silenzio; il terzo è il rapporto con le cose.
Li ritengo prioritari non perché non ce ne siano altri di uguale importanza e, forse, anche più importanti, ma perché essi sono strettamente legati alle scelte (o meglio alle imposizioni) che siamo stati costretti a subire in questi mesi, in termini di contenimento e distanziamento sociale, di riduzione della mobilità e delle attività lavorative e professionali.
Le imposizioni che abbiamo dovuto subire, accanto agli indubbi disagi e sofferenze che le hanno accompagnate, hanno avuto, se non altro, il non previsto, il non voluto, ma casuale e pur tuttavia ben reale vantaggio, di farci scoprire alcuni valori che oramai da svariati decenni avevamo rimosso, anzi del tutto dimenticato.
4.1 Innanzitutto il valore della lentezza. La forzata inattività, legata alla sospensione di buona parte delle attività lavorative, ci ha costretto a cambiare i nostri ritmi quotidiani, ha tolto loro gran parte della frenesia che nella maggioranza dei casi li caratterizzava.
Le nostre giornate si sono improvvisamente dilatate, prolungate, sono diventate più riposanti; per alcuni (per i più giovani, ad esempio) fin troppo riposanti. Abbiamo scoperto (o siamo stati costretti a scoprire) nuovi interessi (ad esempio, quello della lettura, per la quale magari prima dicevamo di non avere mai tempo).
Abbiamo avuto anche più tempo per le relazioni. In primo luogo, come è ovvio, per quelle familiari: figli e coniugi. Ma anche per quelle con gli amici, che seppure non potevamo incontrare fisicamente, potevamo però contattare telefonicamente (importantissima in questo caso la funzione delle videochiamate) o attraverso i canali della rete.
Ora passare dalla imposizione che ha caratterizzato questi lunghi giorni di pandemia alla scelta degli stessi comportamenti (se non proprio di tutti, almeno di un buona parte di essi) nella fase post pandemica potrebbe costituire uno dei cambiamenti dei paradigmi culturali, a cui facevo cenno prima e di cui ci sarebbe grande bisogno.
4.2 Il secondo valore che questo tempo di pandemia ci ha fatto scoprire (forse non a tutti, ma sicuramente a molti più di prima) è quello del silenzio.
La interruzione di molte attività lavorative, il maggior tempo trascorso in casa, la conseguente fortissima riduzione del traffico nelle nostre città ci hanno fatto riscoprire e in molti casi perfino conoscere la dimensione del silenzio.
Il venir meno del frastuono ordinario, che accompagnava, quasi come colonna sonora di sottofondo, la nostra vita, ci ha fatto scoprire o riscoprire suoni che prima manco avvertivamo più (soprattutto in città): il canto degli uccellini, il vocio distinto degli umani per le strade, la melodia delle campane…
Teniamo presente che il silenzio è condizione (quasi) indispensabile per svolgere le attività superiori dello spirito, come pensare, riflettere, guardarsi dentro, conversare, studiare, leggere, scrivere, meditare, contemplare… Che nel frastuono della vita ordinaria è ben difficile praticare.
Sarebbe importante se il necessario (e, per molti, involontario) maggiore silenzio a cui siamo costretti in queste settimane ce lo avesse fatto apprezzare. E ci avesse fatto sorgere dentro il desiderio di mantenerlo (almeno in una quota parte, almeno in certi momenti) anche quando torneremo alla famosa “normalità”.
Non tanto per il valore del silenzio in sé. Ma per tutto quello che il silenzio come condizione ambientale favorisce, come abbiamo (forse) potuto sperimentare (anche se forzatamente) in questo periodo.
4.3. La terza scoperta, di cui questo tempo, per quanto doloroso, può averci fatto dono (se abbiamo saputo coglierla) e di cui potremmo fare tesoro prezioso anche dopo che esso sarà finito, è quella di un nuovo rapporto con le cose.
Chi di noi non ha avvertito in questo periodo il limite di non poter andare a fare delle compere, a parte ovviamente quelle legate ai beni di prima necessità, indispensabili alla pura e semplice sopravvivenza?
Di non poter andare, ad esempio, a comprare una camicia nuova, un abito nuovo, un profumo nuovo, un telefonino nuovo, un tablet nuovo… per non parlare di un auto nuova, di una moto nuova, di una casa nuova…
Ecco, questo tempo singolare, che stiamo vivendo da qualche mese a questa parte, ha bloccato, ha castrato la nostra voglia bulimica e ossessiva di “nuovo”.
E ci ha reso (forse) più consapevoli che tante di quelle cose nuove che avremmo desiderato in tempi “normali” non erano poi così necessarie.
E che senza di esse si poteva vivere lo stesso, che non erano affatto necessarie, indispensabili come la cultura nella quale siamo cresciuti ci spingeva invece a sentire e pensare.
Ecco, questa rottura (che ci è stata imposta e quindi è stata traumatica) dell’identificazione tra “il nuovo” e “il necessario” costituirebbe un grosso cambiamento di natura culturale se diventasse una scelta, quando essa (speriamo) non ci sarà più imposta nel dopo corona virus.
Cambiamento consistente nel passaggio da una cultura del consumismo e dell’inevitabile conseguente spreco alla cultura della sobrietà e dell’uso lungo delle cose.
Sarebbe questo il terzo dei tre grossi cambiamenti di paradigmi culturali, necessari al cambiamento del rapporto “salute/produzione; “benessere/produzione di beni”.
Cambiamenti che a me sembrano indispensabili, se non vogliamo che il ritorno alla “normalità” del dopo pandemia non sia un ritorno alla stessa, precedente, triste cultura di prima, che tanti danni ha fatto (e probabilmente lo stesso corona virus ne è un effetto), ma l’inizio di una nuova storia più bella, più umana.
Che assicuri il benessere, se non proprio la felicità, alla maggior parte degli esseri umani e non solo a pochi, come invece accade/va in tempi di cosiddetta “normalità”.
© Giovanni Lamagna