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Repubblica fondata sul lavoro o Repubblica fondata sulla dignità della persona umana?
Su “la Repubblica” di ieri è comparso un editoriale di Ezio Mauro dedicato, in occasione della festività del primo maggio, alle questioni legate al lavoro.
Ne riporto solo un passaggio, che ne rende bene il senso complessivo, e provo poi a fare delle considerazioni personali, che mi sono state stimolate dalla lettura dell’articolo.
Così scrive Ezio Mauro:
“…Il lavoro non è stato soltanto strumento di realizzazione, di dignità, di emancipazione, ma ha funzionato da elemento di riconoscibilità sociale: e oggi ci accorgiamo invece che nessuno dei ruoli mutevoli che nascono dal lavoro è abbastanza consistente e durevole da conferire un’identità solida, riconoscibile e spendibile. Tutto questo, nei postumi faticosi della crisi, toglie al lavoro quel carattere di certezza, di garanzia e di protezione che ha sempre avuto, lo rende un bene incerto e persino sospetto.
Quanto pesa, questo indebolimento del lavoro, sulla sensazione di instabilità che domina i cittadini? Quanto incide sullo stesso sentimento di insicurezza, che la politica declina soltanto nei confronti dei migranti o della criminalità, e invece nasce in gran parte dall’incertezza del presente, dalla paura del futuro?
Il dovere ” costituzionale” della politica è dunque quello di rimettere il lavoro al suo posto, perché il reddito di cittadinanza non basta, è la sostituzione di un diritto con l’assistenza, quindi un aiuto materiale e un indebolimento politico. Per la sinistra quel dovere è addirittura un obbligo: è nata dal lavoro, la fine del lavoro è la fine di ogni progetto di emancipazione, dunque è il venir meno della sua stessa ragione di esistere.”
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Di seguito alcune mie riflessioni a commento.
Prima questione. Non ci sono dubbi che il lavoro nel corso della storia “ha funzionato da elemento di riconoscibilità sociale”.
Non è un caso, infatti, che molte persone si presentano agli altri, ancora oggi, facendo precedere al loro nome e cognome quello della loro professione (almeno quando questa rientra nella categoria delle professioni “nobili”, potremmo dire di primo livello, quelle che accreditano un ruolo di prestigio nella gerarchia sociale).
In proposito mi viene però da chiedermi: il fatto che questa sia una realtà ne testifica automaticamente la legittimità teorica e morale? la riconoscibilità sociale di una persona deve necessariamente dipendere dal lavoro che svolge? allora il disoccupato, colui che non trova lavoro o che perde il lavoro, non ha diritto ad una riconoscibilità sociale? infine, se la riconoscibilità sociale di una persona dipende essenzialmente dal lavoro che svolge, allora sono di fatto legittime le gerarchie sociali e la diversa dignità sociale delle persone che da quelle deriva?
Come si vede, l’equiparazione “lavoro=riconoscibilità sociale=dignità sociale” comporta tutta una serie di incongruenze e contraddizioni sul piano della democrazia, se la vogliamo intendere come istituto sostanziale ed effettivo e non solo formale ed apparente.
Sarebbe il caso allora, a mio avviso, di non far dipendere più la riconoscibilità sociale e quindi la dignità sociale della persona dal lavoro, ma dal suo stesso essere una persona.
Una persona ha diritto ad essere riconosciuta socialmente non perché svolge un lavoro e non riconosciuta di un grado più o meno elevato a seconda del lavoro che svolge, ma per il fatto stesso che è nata, vive, esiste ed ha una cittadinanza.
Questo e solo questo può garantire la pari dignità delle persone e quindi essere il vero fondamento di una Repubblica autenticamente democratica.
Fondare la Repubblica sul lavoro equivale (di fatto) a dire che ci sono i cittadini della Repubblica (quelli che hanno un lavoro) e i non cittadini della Repubblica (quelli che il lavoro non lo hanno).
Equivale anche a dire che tra i cittadini della Repubblica ci sono vari livelli di cittadinanza, a seconda del livello (riconoscibilità) sociale del lavoro svolto.
L’identità “solida, riconoscibile e spendibile” di una persona non dovrebbe dipendere tanto (e meno che mai soltanto) dal suo lavoro, ma dal suo essere complessivo di “persona”, che non si esaurisce affatto né trova il suo primo fondamento nel lavoro svolto.
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Seconda questione. E’ evidente, anzi del tutto ovvio, che la mancanza di lavoro incide sul sentimento di insicurezza del cittadino, forse (o senza forse) ancora di più del fattore “immigrazione” e del fattore “criminalità”.
Ma inciderebbe allo stesso modo se il cittadino, al momento stesso della nascita, potesse contare su un vero reddito di cittadinanza, vero nel senso di “reddito universale di cittadinanza”, che gli garantisse la possibilità di condurre una vita dignitosa, a prescindere dal fatto di avere un lavoro o meno?
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Terza questione. A pensarci bene, in una Repubblica democratica fondata sulla dignità della persona umana (e non sul lavoro, come una cultura troppo lavorista – soprattutto di sinistra – l’ha, invece, voluta nel 1948), il reddito di cittadinanza non sarebbe più una misura di assistenza, ma il riconoscimento di un diritto, di un diritto primario e fondamentale, quello all’esistenza, che non può essere secondo (e quindi condizionato) al diritto al lavoro.
Questo, infine, non andrebbe più inteso come un diritto, ma piuttosto come un dovere: il dovere per il cittadino-persona di collaborare (ciascuno in base alle sue capacità e competenze) alla costruzione della casa comune, la res publica, la Repubblica.
Da questo punto di vista la sinistra non dovrebbe affatto legare il suo destino a quello del lavoro, come ha fatto da quasi due secoli a questa parte e come per Ezio Mauro dovrebbe continuare, anzi riprendere, a fare. La sinistra piuttosto dovrebbe legare il suo destino a quello delle persone in quanto persone, a quello della dignità della persona umana nel suo complesso, di cui il lavoro è tutt’al più un aspetto e non certo il fondamento.
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In fondo Mauro aveva iniziato bene il suo articolo, quando scriveva:
“Probabilmente dobbiamo prendere atto che la Repubblica non riesce più a fondarsi sul lavoro, come impone la Costituzione disegnando il modello della nuova Italia.
E contemporaneamente dobbiamo domandarci se il lavoro definisce ancora la nostra società, le sue relazioni interne, le sue trasformazioni e la sua cifra complessiva…”
Poi si è perso per strada. A testimonianza di una cultura politica vecchia, che è dura a morire e non riesce manco lontanamente a intravedere la nuova cultura politica, di cui la Sinistra (non solo italiana) ha un estremo bisogno, per poter rinascere dalle sue ceneri.
Se vuole realmente rinascere dalle sue ceneri, la Sinistra ha bisogno non di rimettere insieme i suoi cocci, continuando ad utilizzare (appena riveduto e corretto) il suo vecchio armamentario di idee, ma abbisogna innanzitutto, (come il pane: il nuovo pane di cui i compagni dovranno cibarsi), di elaborare una nuova cultura politica, fondata (tra le altre cose e in primo luogo) non più sul lavoro come diritto, ma sulla dignità della persona umana.
Letto da questo punto di vista, l’articolo di Ezio Mauro è stato per me un utile spunto e una buona occasione di riflessione.
Giovanni Lamagna