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Esiste oggi in Italia una “sinistra sociale”?
In un post pubblicato ieri sulla sua pagina facebook, Ida Dominijanni, storica giornalista de “il manifesto”, dopo aver descritto (efficacemente, devo dire) il teatrino che caratterizza questa fase politica (una gag per tutte: Renzi che in Parlamento accusa Conte di autoritarismo; ed è tutto dire!), se ne esce con la seguente affermazione, una sorta di chiamata alle armi:
“Io penso che senza una sinistra sociale agguerrita, senza un’invenzione sulle pratiche di lotta dal basso, stavolta non ne usciamo davvero.”
Che mi sollecita una domanda: ma cosa è, cosa sarebbe la “sinistra sociale” di cui parla la Domininijanni? anzi: esiste oggi in Italia una “sinistra sociale”?
Tento una risposta, ovviamente la “mia” risposta; forse molto diversa da quella che darebbe la Dominijanni.
La “sinistra sociale” in linea teorica dovrebbe essere l’insieme delle realtà di base (gruppi, associazioni, movimenti, sindacati…) che si muovono con una prospettiva di cambiamento in senso progressivo, in direzione cioè di un sempre maggiore egualitarismo, degli equilibri economici, sociali, culturali, politici, istituzionali (perciò sinistra), ma su un terreno diverso dalla “politique politicienne” dei partiti, delle elezioni, della rappresentanza istituzionale… (perciò sociale).
Ora qual è lo stato di questa sinistra oggi in Italia?
Il primo dato è che essa (se esiste) si divide in diversi tronconi.
Il secondo dato è che questi diversi tronconi, a voler usare un’espressione eufemistica, fanno fatica a comunicare tra di loro; a voler invece chiamare le cose col loro nome, nel migliore dei casi si ignorano tra di loro; nel peggiore addirittura sono in competizione, se non in una vera e propria lotta, tra di loro.
Quali sono questi tronconi?
Il primo (ma più nominalmente che realmente, come dirò tra poco) è quello dei sindacati cosiddetti tradizionali, che qualcuno già da alcuni anni definisce spregiativamente come “Triplice”: CGIL, CISL e UIL.
La mia impressione, da soggetto che da tanti anni oramai non li bazzica più e manco li sfiora, è che questi sindacati siano dei palloni gonfiati, anzi in alcuni casi perfino abbastanza sgonfi.
Nel senso che dichiarano e forse hanno ufficialmente ancora molti iscritti, ma oramai non hanno più una reale rappresentanza sociale, in quanto il loro gruppo dirigente assomiglia sempre più a un piccolo/grande e triste apparato di burocrati e la loro base continua a restare iscritta più per una forma di stanca abitudine che per una vera fiducia nell’organizzazione, ancora meno per una scelta di convinta e attiva militanza.
Come è del tutto evidente (se la mia descrizione è fedele) da questo troncone di “sinistra sociale” (???) è lecito attendersi ben poco rispetto alle “pratiche di lotta dal basso”, auspicate/invocate dalla Dominijanni.
Il secondo troncone è dato dai cosiddetti “sindacati di base” (USB, COBAS, UNICOBAS…). Tali sindacati nacquero negli anni ‘’80, dalle costole dei sindacati tradizionali, quando oramai era diventato chiaro che questi avevano preso una piega del tutto compatibilista, che sarebbero diventati quindi sempre più apparati burocratici e sempre meno organizzazioni della lotta emancipatrice dei lavoratori.
Tali piccole organizzazioni sindacali, nate dal dissenso maturato verso le grandi organizzazioni sindacali, hanno quindi alle spalle oramai alcuni decenni di vita. Ma, pur essendo (con tutta evidenza) in questi anni cresciuta la disaffezione verso i sindacati tradizionali, sono rimaste ancora e a tutt’oggi piccole organizzazioni, alcune anzi in evidente crisi, per calo di iscritti oltre che per incapacità di organizzare lotte dalla reale ricaduta ed efficacia.
In secondo luogo sono piccole organizzazioni che soffrono di un atavico e si direbbe congenito spirito competitivo tra di loro; cosa che ovviamente ne aggrava enormemente la irrilevanza sociale e politica, già pesante sul piano della rappresentanza numerica.
Quale contributo ci si può aspettare dunque da queste organizzazioni alle “pratiche di lotta dal basso”, auspicate/invocate dalla Dominijanni? Poco più che nullo.
Il terzo troncone di quella che potrebbe essere definita “sinistra sociale” è data dai gruppi che vengono di solito definiti con l’espressione di “centri sociali”.
I “centri sociali” sono gruppi in genere non molto numerosi al loro interno (al massimo un centinaio di appartenenti), composti da giovani e non più tanto giovani, vicini ai 40 anni, che hanno occupato e occupano uno spazio/struttura fisico/a (spesso di proprietà pubblica).
Questa occupazione è stata e viene più o meno ufficialmente avallata o quantomeno tollerata (in genere dagli enti locali che ne sono i proprietari) ed è diventata ed è quindi in prima istanza luogo di aggregazione sociale, culturale, ricreativa e politica e in seconda istanza base per un’animazione sociale, culturale, ricreativa e politica del territorio in cui il centro sociale è collocato.
La mia impressione (dall’esterno ovviamente) è che questi gruppi, pur prodigandosi molto (in parecchi casi) per offrire servizi utili (soprattutto) al quartiere nel quale sono inseriti (dopo-scolastici, medico-sanitari, mense, consulenza giuridica, specie lavoristica, assistenza agli immigrati…) sono rimasti (quasi per un vizio di origine) sostanzialmente gruppi piuttosto chiusi e non realmente aperti a nuove adesioni.
Quale vizio o vizi di origine?
A mio avviso innanzitutto l’estremismo ideologico-politico. La maggior parte di questi gruppi si fonda, infatti, sull’ideologia comunista, marxista-leninista, per quanto riveduta e corretta, in una versione che vorrebbe essere comunque rivoluzionaria, senza avere alcuna consapevolezza di essere del tutto velleitaria, in un’epoca complessa e in una società estremamente articolata come quelle odierne.
Il secondo vizio è lo stesso che affligge i sindacati di base: questi gruppi più sono piccoli e più si sentono il centro del mondo, i detentori della verità; per cui sono in costante, latente, strisciante competizione tra di loro; anziché agire coordinando la loro azione, mirano ciascuno (quasi tutti) ad assumere l’egemonia teorica e di fatto sugli altri; in questo modo ovviamente si elidono gli uni con gli altri.
Date queste premesse, a mio avviso, anche da questo lato è da attendersi ben poco quanto alle “pratiche di lotta dal basso”, auspicate/invocate dalla Dominijanni.
C’è poi un quarto troncone che potrebbe afferire al concetto di “sinistra sociale”: quello costituito dalla galassia di gruppi, comitati, associazioni, movimenti, che o svolgono azione di puro volontariato sul territorio o si impegnano su determinate tematiche, molto specifiche e alquanto delimitate.
Negli ultimi anni due sono le tematiche sulle quali sono sorti gruppi, comitati, associazioni, movimenti di una certa rilevanza numerica e massmediatica, oltre che per l’azione sociale concretamente svolta: 1) la tematica per la difesa dell’acqua come bene comune, la cui proprietà e gestione devono/dovrebbero quindi rimanere pubbliche; 2) la tematica della difesa e della tutela del clima e dell’ambiente.
Anche questo quarto troncone ha dei limiti come i primi tre? A me pare del tutto evidente! Come si potrebbe non vederli?
Innanzitutto parecchi di questi soggetti non sanno manco cosa sia la “sinistra” e non ci tengono proprio a farsi etichettare sotto una simile sigla.
Sfuggono quindi a qualsiasi catalogazione e a maggior ragione a qualsiasi tipo di “intruppamento” che esca dalla dimensione puramente sociale in cui si sono posti per scelta deliberata; in altre parole fanno di tutto per evitare di non dico entrare dentro, ma anche solo sfiorare la sfera della politica.
In secondo luogo questi soggetti svolgono azioni meritorie ed in alcuni casi perfino efficaci, ma tutte molto settoriali (lotte per l’acqua pubblica, contro le discariche e gli inceneritori, contro le grandi opere tipo la TAV, per l’aiuto agli immigrati, per la difesa della Costituzione…). Senza quindi (molto spesso) una visione complessiva e organica, all’interno della quale lo specifico problema di cui essi si occupano potrebbe e (a mio avviso) dovrebbe essere inserito.
Per queste due ragioni mi sembra dunque che neanche questo troncone possa essere granché coinvolto nella “chiamata alle armi” fatta dalla Dominijanni.
Ci sarebbe, infine, (ma forse, come dirò poi, è improprio considerarlo tale) un quinto troncone (difficile da quantificare, ma sicuramente molto più ampio e significativo degli altri quattro) , costituito da quella miriade di persone che, se interpellate, si dichiarano ancora oggi convintamente di sinistra e in molti casi lo sono anche oggettivamente, per collocazione sociale, per visione del mondo, valori, cultura e storia politica.
Ma in questo momento sono cani sciolti: non militano in alcun sindacato, in nessun partito e neanche in nessun gruppo o associazione di scopo; nel migliore dei casi e solo di tanto in tanto partecipano a qualche convegno o a qualche manifestazione organizzato/a da quella che genericamente potremmo definire “sinistra di movimento”.
Faccio fatica però a considerare questa “sinistra diffusa” (così è stata spesso definita in passato), quanto mai frammentata e atomizzata, come facente parte di quell’area che la Dominijanni ha definito “sinistra sociale”. In quanto questa sinistra è solo un’area (vagamente) “politico-culturale”, più che sociale in senso stretto.
Ed è inoltre un’area che si muove, si mobilita, con molta difficoltà e diffidenza; vive di nostalgia (nella maggior parte dei casi) o nell’attesa/speranza di “un’isola che ancora non c’è” (nella minoranza dei casi), piuttosto che di attiva (anche se solo potenziale) voglia di partecipazione.
Infine, come è ovvio, è strutturalmente incapace (seppure lo volesse) di autonoma mobilitazione. Lo ha fatto in passato (i “girotondi”, il “popolo viola”, “l’assemblea del Brancaccio”, più di recente le “sardine”) rispondendo in genere al richiamo di qualche intellettuale di grido (Nanni Moretti, Paolo Flores d’Arcais, Marco Revelli, Guido Viale, Stefano Rodotà, Gustavo Zagrebelsky, Maurizio Landini, Tomaso Montanari…). Ma, priva com’era e incapace di darsi una struttura organizzativa, la sua mobilitazione è durata lo spazio di un mattino.
Dovrebbe e potrebbe mobilitarsi al seguito di qualcuno degli altri quattro tronconi di cui ho parlato in precedenza. Ma nessuno di questi (per limiti di credibilità culturale, politica e persino morale) è in grado di motivarne adeguatamente la partecipazione, attivandone le energie potenziali.
In conclusione, il concetto di “sinistra sociale” non gode quindi al momento (almeno in Italia) di troppa buona salute. Né ci sono segnali di una sua imminente ripresa. La chiamata alle armi della Dominijanni mi sembra quindi destinata a cadere fatalmente e tristemente nel vuoto: non mi appare in questa fase una seria e significativa prospettiva politica.
Brevissimo post scriptum. Ovviamente, se questa è la condizione della “sinistra sociale”, ancora peggiore è quella della “sinistra politica”. E ancora più fumose e improbabili appaiono le prospettive di una sua ripresa o, meglio, rinascita. Dal momento che, come ci insegna un punto di analisi marxista ancora tuttora valido, non può darsi una “sinistra politica” senza una “sinistra sociale”.
© Giovanni Lamagna